domenica, Dicembre 22, 2024

Cultura, Teatro & Spettacolo

Parlano quelli che il teatro lo fanno, terza parte

Le proposte di C.Re.S.Co e le testimonianze di ErosAntEros e Instabili Vaganti

di Simona Maria Frigerio

Tra pochi giorni ci si potrà sedere, in caso se ne senta la necessità, in una Chiesa per assistere alla celebrazione della Messa – rito religioso praticato dai cristiani in ogni dove. Del rito laico del teatro, però, non pare che il Governo senta altrettanta necessità. Mentre il Ministro Franceschini con le fantasiose proposte di una Netflix della Cultura, forse non si rende nemmeno conto che se il mondo non dovesse più venire in Italia per ammirare chiese e palazzi, rovine e musei, ma anche per assistere a una tragedia greca nello splendido scenario del Teatro di Siracusa o a un’opera sul palcoscenico cool & chic della Scala, o a uno spettacolo di quell’effervescente mondo teatrale che pone la ricerca e l’innovazione quale obiettivo primario e che ha reso il nostro uno tra i panorami creativi più vivi in Europa – e persino Oltreoceano; ebbene, se tutto ciò fosse fruibile su uno schermo di computer o, peggio, su uno smartphone, l’economia italiana crollerebbe senza possibilità di appello, con un azzeramento del settore turistico, enogastronomico, dell’ospitalità e della ristorazione, oltre che dello stesso spettacolo dal vivo che, con l’obolo dell’abbonamento pseudo-Netflix, forse potrebbe produrre una decina di spettacoli l’anno.

In questa Italia dove abbondano le task force, è ora che i politici convochino le parti sociali e i professionisti dei vari settori, le associazioni di categoria e i sindacati, tutti i rappresentanti dei vari mestieri, in quanto sono gli unici ad avere il polso della situazione – conoscendo limiti, problematiche, bisogni reali e possibili soluzioni – per capire come muoversi nelle prossime settimane e mesi. Urgono risposte chiare e in tempi brevi. Non è più tempo della “potenza di fuoco” che elargirebbe centinaia di miliardi e si rivela una vuota promessa accompagnata dalla richiesta alle banche di “un atto d’amore”. Perché le banche non hanno mai fatto beneficenza e non è nemmeno loro compito farne.

In questo clima di estrema confusione, mentre i decreti del Governo si rincorrono, dribblando le ordinanze regionali e inciampando nelle disposizioni municipali, C.Re.S.Co, “facendosi portavoce dei lavoratori dello spettacolo dal vivo, esprime una profonda preoccupazione in merito al silenzio assoluto su qualsiasi ipotesi concreta di ripresa delle attività teatrali”. Nella lettera aperta al Ministro per i Beni culturali e il Turismo, Dario Franceschini, il coordinamento ribadisce che gli spazi teatrali sono “presidi culturali e civici di prossimità sui territori, pronti ad attrezzarsi per rispondere, nel rispetto di ogni vincolo imposto, alla domanda di comunità che oggi si leva dalle cittadine e dai cittadini di questo Paese” e chiede la “ripresa delle attività che si svolgono in assenza di pubblico, in primis illavoro negli uffici…; le prove delle Compagnie per la realizzazione di nuove produzioni; le attività per cui le misure di contenimento del virus risulterebbero di facile gestione, come le attività formative laboratoriali; e le attività di spettacolo all’aperto, di fondamentale e prioritaria importanza sia per permettere ai lavoratori dello spettacolo di tornare al lavoro sia per invitare gli spettatori/cittadini a superare la paura che l’isolamento protratto ha determinato, ricreando così le comunità”.


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In attesa della risposta ufficiale da parte della politica, riproponiamo le domande che abbiamo posto nei giorni scorsi a Compagnie, attori, registi e operatori, e alle quali rispondono oggi due realtà teatrali che, in questi anni, si sono fatte conoscere proprio per la loro originalità e capacità di ibridare linguaggi e discipline – ErosAntEros e Instabili Vaganti.

In questo periodo di stop forzato dell’attività su quali strumenti, a livello di ammortizzatori sociali (cassa integrazione, bonus per le Partite Iva, eventuale sospensione del pagamento di affitti e/o mutui relativamente alle strutture lavorative occupate, etc.), potete fare affidamento?

Quali interventi, normativi ed economici, vi necessitano per riprendere l’attività? E la stessa fino a quando potrà essere sospesa con la ragionevole certezza di poterla riprendere?

Non pensate che sia mancato un forte coordinamento in questi anni per rivendicare, aldilà del valore culturale e artistico del vostro lavoro, una serie di normative che riconoscessero in pieno il mestiere del fare teatro – parificandolo a qualsiasi altra occupazione? Specifico che l’ultima domanda mi sorge spontanea pensando al refrain che tutti conoscerete e che da barzelletta sembra diventata triste realtà: “Ah, fai l’attore! Ma che lavoro fai davvero?”. E dalle considerazioni che, in queste settimane, mi sono state rivolte da tanti: “Si può rinunciare al teatro o al cinema, che problema c’è? È solo un divertimento”. Non mi pare che le persone si rendano conto che voi lavoriate “davvero”.

Agata Tomsic e Davide Sacco

ErosAntEros – Davide Sacco, regista e music designer, e Agata Tomsic, attrice e dramaturg
Nel nostro caso, per una serie di circostanze, ci siamo ritrovati dei contratti aperti alla fatidica data del 17 marzo, motivo per cui  i provvedimenti presi dal Governo non ci hanno permesso di avanzare le richieste per l’indennità di 600 Euro per marzo, ma ci hanno per assurdo dato la possibilità di avanzare domanda di Cassa Integrazione in Deroga. Purtroppo, però, mentre per l’indennità la domanda s’invia autonomamente a costo zero, per la CIG c’è un costo non indifferente da pagare al consulente del lavoro (perché le domande non sono per nulla semplici né sbrigative), e inoltre, mentre l’indennità per marzo è già stata versata, la CIG arriverà sui conti correnti chissà quando. Insomma, se consideriamo la spesa sostenuta per inviare le domande, riceveremo meno con la CIG che con l’indennità. E ora che si parla (giustamente) di aumentare l’importo dell’indennità per aprile, chi come noi è in CIG (solo per l’assurdità della data del 17 marzo) si ritroverà a ricevere molto meno di chi prende l’indennità. Questa è una brutta falla del sistema. Ma c’è di peggio. C’è chi non ha potuto fare richiesta né dell’indennità né della CIG, semplicemente perché lavora, come quasi tutti, con contratti di scrittura anche a brevissimo termine, e magari aveva un contratto di scrittura di un solo giorno a marzo, magari proprio nella data del 17 marzo. Bisognava permettere ai lavoratori dello spettacolo che lo preferivano di accedere all’indennità invece che alla CIG. O, meglio ancora, ci vorrebbe un sistema completamente diverso, che non necessiti di tutti questi interventi straordinari. Ci vorrebbe un sistema simile a quello degli intermittenti francesi. Dobbiamo riuscire a lottare tutti uniti, senza dividerci tra attori, registi, tecnici, eccetera. Insieme, come lavoratori dello spettacolo. Anche se restiamo convinti che la vera soluzione sarebbe un reddito minimo universale, garantito dallo Stato per tutte le persone, senza distinzioni.

C’è da dire che il Governo sta facendo qualcosa, ma sono misure d’emergenza, a termine, che non possono bastare. L’emergenza attuale ha reso evidente la grande fragilità e precarietà in cui vivono i lavoratori dello spettacolo: servono misure concrete non solo per il presente, ma che restino a tutela dei lavoratori dello spettacolo per sempre, sul modello del sistema di intermittenza francese. Parallelamente, occorrono interventi per sostenere le realtà dello spettacolo, dalle grandi strutture come i Teatri Nazionali, fino a quelle piccolissime, come le tante Compagnie indipendenti, ma anche tutte quelle piccole realtà che si occupano in un modo o nell’altro di teatro (parliamo di teatro perché è l’ambito che viviamo e che, quindi, conosciamo meglio) e che formano un tessuto culturale fondamentale per la nostra società. Anche su questo fronte il Governo non è stato completamente immobile, seguito da misure prese da Regioni, Comuni e, a volte, anche Fondazioni, andando a snellire e a rendere più elastico il sistema di finanziamento allo spettacolo, almeno per il 2020. La Regione Emilia-Romagna su questo si sta muovendo con determinazione, dimostrando di considerare lo spettacolo, l’arte e la cultura beni importanti per la società. Tornando al Governo, seppure le cifre messe in campo siano davvero irrisorie, con un budget di 20 milioni di euro, è stato da pochi giorni annunciato dal Ministro Franceschini un fondo per gli extra Fus (Fondo Unico dello Spettacolo, n.d.g.), ovvero un finanziamento straordinario per le piccole realtà che non hanno avuto accesso, nel 2019, ai finanziamenti del Fus. Benissimo. Accade però che, tra i requisiti per accedere a questo finanziamento, pensato – come ha dichiarato il Ministro – “per non lasciare fuori nessuno”, c’è la richiesta di 15 rappresentazioni. Secondo noi proprio questo parametro del numero di rappresentazioni, rappresenta il peggio del sistema attuale di ripartizione del Fus, a tutti i livelli. Diventa completamente assurdo se applicato a una misura destinata a realtà che non hanno accesso al Fus e che, o cedono i loro bordereau a strutture più grandi (tutte le strutture, a ogni livello, sono affamate di bordereau nel tentativo di arrivare agli assurdi parametrici numerici del Fus) o, a causa del loro tipo di attività (laboratori, promozione della cultura teatrale, lunghi periodi di studio o di lavoro in sala, magari in residenza, da nomadi), non hanno proprio nel loro orizzonte il collezionare le cosiddette rappresentazioni. Gli altri requisiti richiesti sono più che ragionevoli, compreso il numero di giornate di contributi versati che servono per dimostrare in qualche modo la professionalità della struttura e per incentivare la migliore regolarizzazione dei rapporti lavorativi, ma il numero di rappresentazioni non può e non deve essere un requisito per un fondo destinato agli extra Fus. Chiediamo che questo requisito sia eliminato.

Sì, è assolutamente mancato un coordinamento. Dobbiamo trovare il modo di unirci. Crediamo che l’obiettivo concreto e immediato dovrebbe essere quello di avere gli stessi diritti dei nostri colleghi di altri Paesi europei e degli altri lavoratori in Italia. Ma il vero obiettivo dovrebbe essere un reddito minimo universale garantito dallo Stato per tutti, senza distinzioni.

Nicola Pianzola e Anna Dora Dorno

Instabili Vaganti – Anna Dora Dorno, regista e performer, e Nicola Pianzola, drammaturgo e performer
In questo momento dovremmo poter usufruire della cassa integrazione, anche se non sappiamo ancora se la nostra richiesta è stata accolta. Aspettiamo speranzosi un sostegno che ci consenta di vivere in tranquillità questi mesi di fermo. Per quanto riguarda il L.I.V., il nostro centro di ricerca nelle arti performative, che gestiamo a Bologna, avevamo già l’abbattimento del canone d’affitto per l’attività da noi svolta, ma ci restano da pagare tutte le utenze. Al momento non siamo a conoscenza di nessuna misura che possa aiutarci a sostenere queste spese. Il Comune di Bologna non ha pensato sostegni in tal senso, per il momento.

In questo periodo, in realtà, non ci siamo mai fermati, abbiamo solo cambiato gli strumenti con i quali poter lavorare. Certo, non possiamo presentare i nostril lavori dal vivo e molte date sono state annullate ma la complessità del lavoro artistico e di quello oragnizzativo, che lo sorregge, ci ha consentito di creare una metodologia differente per continuare a lavorare. In questi giorni stiamo attivando la prima sessione virtuale del progetto Stracci della Memoria: è una sfida, una novità, per noi che lavoriamo molto con il contatto fisico, ma non ci disturba sperimentare soluzioni alternative. Riteniamo importante, però, che anche questo lavoro sia riconosiuto e retribuito. In questo periodo ci hanno chiesto molti contributi video, le nostre performance sono state trasmesse sul web nella loro versione integrale, e siamo stati contenti di contribuire, con il nostro lavoro, a trasmettere cultura in un momento così difficile, che sembrava avere carattere temporaneo. Adesso ci sembra chiaro il fatto che questa situazione, almeno per lo spettacolo dal vivo, non sarà più momentanea e, di conseguenza, crediamo debba essere un dovere delle istituzioni ripensare alcune formule adottate finora per far sì che anche queste nuove modalità di lavoro siano retribuite e sostenute. Sarebbe necessario supportare concretamente le attività di adeguamento delle attrezzature, di acquisizione di piattaforme web, e soprattutto la riconversione del prodotto culturale, non solo delle grandi realtà ma anche di quelle più piccole come la nostra. Se il momento richiede un cambiamento, questo non deve penalizzare ma aiutare e valorizzare il lavoro di tutti – mentre sembrerebbe solo potenziare I prodotti mainstream. Tali misure sarebbero poi utili anche dopo l’emergenza per implementare le forme di comunicazione e per diffondere maggiormente alcuni progetti, consentendo al teatro di arrivare anche ad altre fasce di pubblico sempre più abituate all’utilizzo dei nuovi strumenti digitali.

Crediamo che nel nostro comparto esistano già da tempo diverse problematiche che sono state soltanto accentuate da questa crisi, determinata dalle regole imposte dal governo per contrastare la pandemia. La questione che maggiormente ci sentiamo di porre in evidenza è l’impossibilità per tutti noi di raggiungere certezze e stabilità: economiche in primis, ma anche relative al riconoscimento del nostro status. Non importano gli anni di lavoro, i risultati conseguiti, i premi, il curriculum maturato, ogni sforzo sembra essere sempre vano, e ognuno di noi è continuamente costretto a ricominciare. Ecco perché in questa situazione molti sentono la fretta e/o la necessità di tornare in scena il prima possibile. Per paura di essere dimenticati. Questa situazione amplifica uno dei nostri incubi peggiori, quello di veder svanire tutti i nostri progetti in un attimo. Crediamo che la dignità dell’artista debba, al contrario, essere racchiusa nella sua libertà di creare, non solo prodotti usa e getta, per l’intrattenimento di un pubblico borghese annoiato ma, innanzi tutto, un cambiamento, nelle persone e nella società. Questa capacità dovrebbe essere un valore riconosciuto e non qualcosa da osteggiare. Misurare questo valore non è semplice ma sicuramente il parametro numerico, strettamente legato al numero dei “prodotti” venduti, adottato dal Ministero per determinare un sostegno, non è quello adeguato. Per noi il Teatro non è solo un mestiere e, al pari delle altre professioni artistiche, non dovrebbe essere equiparato a qualsiasi altro mestiere. Forse è proprio questo il problema che, al momento, esiste in Italia, il fatto di non avere un sistema di riconoscimento del lavoro artistico diverso da quello dedicato ad altre professioni. I teatri non sono aziende e le compagnie non sono imprese. Tantomeno sono associazioni – forma giuridica che, al contrario, siamo costretti in maggioranza a utilizzare. Non siamo volontari che dedicano il loro tempo libero allo svago degli altri e non siamo, al tempo stesso, impresari che possono misurare il loro valore solo su calcoli di fatturato. Dedicarsi alla creazione artistica è una scelta di vita che dovrebbe essere rispettata, come quella di ogni altra professione, e conseguentemente tutelata e supportata in base alla combinazione di diversi fattori: il valore umano, quello sociale, estetico e, infine, anche economico che è capace di produrre. 

E infine vi è chi, in questo momento di grave crisi, si immagina un ritorno alla tradizione e avoca a sé e a un numero esiguo di teatri l’intero Fondo Unico dello Spettacolo (perché, altrimenti, come aumentare le entrate già esigue?) così da far rinascere le Compagnie stabili laddove si sa bene che, per mantenere le stesse, occorrerebbero almeno i medesimi stanziamenti previsti dalla Germania per il settore o, in alternativa, un accaparrarsi le modeste finanze destinate all’offerta oggi più creativa, interessante e stimolante del panorama italiano – ossia quella che proviene dalle Compagnie non residenti, dai teatri minori e da autori/interpreti indipendenti.

Un futuro teatrale ridotto a quei nomi che, soprattutto nelle ultime settimane, hanno corteggiato il palinsesto televisivo e che hanno forse detto qualcosa di vitale o innovativo prima del Convegno di Ivrea del ‘67. Se il teatro perderà la sua molteplicità e ricchezza di espressioni, in favore di una tradizione stantia come certi palchi d’opera o certe serate mondane che, a breve, serviranno a dare lustro alla politica così da far sembrare che sia possibile, in questi termini, un ritorno alla normalità; ebbene, se dovessimo svegliarci un mattino e aprire le finestre su questo teatro, non ci resterà che esclamare, come Françoise Sagan, “bonjour tristesse”. 

In copertina: Teatro, non si vede l’orizzonte – Foto di Simona Maria Frigerio (vietata la riproduzione).

(Per leggere l’intera inchiesta, è possibile recuperare le altre tre parti: https://www.theblackcoffee.eu/superare-la-paura-mantenendo-le-precauzioni/
https://www.theblackcoffee.eu/parlano-quelli-che-il-teatro-lo-fanno-seconda-parte/
https://www.theblackcoffee.eu/il-teatro-ultimo-capitolo/
)



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