I frutti di una
Primavera Araba tradita
di Laura Sestini
La storia contemporanea della Repubblica Araba d’Egitto inizia a gennaio del 2011 quando, a causa di un poderoso movimento di protesta, ispirato dall’ondata di sommossa popolare che stava dilagando in quel momento in Tunisia – la cosiddetta Rivoluzione dei Gelsomini – il popolo egiziano scende in piazza per reclamare riforme e rimodernamento al Presidente Hosni Mubarak. Un ex generale dell’aeronautica egiziana alla guida del Paese dal 1981, salito al comando dopo l’assassinio del presidente Muḥammad Anwar al-Sādāt – del quale era vice – per mano di un terrorista della jihad egiziana.
Nonostante in politica estera Mubarak praticasse una linea moderata – che trovò la strada anche per il compromesso di pace con Israele, già avviato da Sādāt; il ritorno della sede della Lega Araba nella capitale Il Cairo; la riconciliazione con la Chiesa Copta; la partecipazione alla prima Guerra del Golfo (godendo in seguito di grandi benefici economici statunitensi), ma opponendosi alla seconda – che univa a un’intensa azione diplomatica per la pace in Medio Oriente, il motivo di dissenso con il popolo egiziano fu la mancanza di riforme nel Paese.
L’assenza di un’adeguata politica interna e le limitate libertà dei cittadini furono anche motivo del non decollo effettivo dell’economia, che Mubarak aveva avviato al capitalismo e alla privatizzazione e anche verso miglioramenti sociali nei settori della sanità, dell’istruzione e per la realizzazione di edilizia popolare per i cittadini più bisognosi.
Per 30 anni, durante i differenti mandati presidenziali di Mubarak, il popolo egiziano dovette subire una dittatura militare, governata attraverso la legge marziale in vigore dall’assassinio di Sādāt – privo del diritto di voto – che comportò la limitazione della libertà di stampa ed espressione e la persecuzione degli oppositori politici a tutto campo.
Il dissenso e l’esasperazione, uniti a una povertà dilagante della popolazione, furono il combustibile che alimentò la contestazione dalla metà di gennaio 2011, una rivolta popolare che subito sfociò in violenza, sia da parte delle forze dell’ordine su comando governativo, che dei manifestanti in piazza, che appartenevano, quest’ultimi, non solo alla cittadinanza comune ma a movimenti di attivisti per i diritti umani, fazioni politiche laiche, e non ultime, anche alle organizzazioni affiliate all’Islam politico. Piazza Tahrir era invasa trasversalmente da tutti i rappresentanti del popolo egiziano in contrasto con la dittatura di Mubarak. La scintilla che infiammò gli animi fu l’autoimmolazione di tre uomini, tra il 17 e il 20 gennaio, che si diedero fuoco – come era successo in Tunisia con l’attivista Mohamed Bouazizi, giusto un mese prima.
Tanta fu la determinazione dei manifestanti che in meno di 20 giorni, durante i quali vi furono violenti scontri con l’esercito in Midan al Tahrir (la piazza), nella capitale Il Cairo – e in altri centri e città minori – e nonostante il coprifuoco stabilito dal Presidente egiziano, il movimento popolare, composto da decine di migliaia di giovani, pronti anche alla morte, riuscì a ottenere le dimissioni di Hosni Mubarak – l’11 febbraio 2011 – annunciato dal vice presidente Osman Sulayman.
Il potere fu lasciato in mano al Consiglio Supremo delle Forze Armate, presieduto dal maresciallo Mohamed Hussein Tantawi; quest’ultimo lasciò in carica il Governo ma sospese la Costituzione. A detto procedimento seguì un accordo di transizione, di sei mesi, volto all’organizzazioni delle future elezioni politiche. Durante i pochi giorni di manifestazioni quotidiane si ebbero migliaia di arresti, 846 vittime e 6.647 feriti.
Per le dimissioni del Rais (in lingua araba, capo/presidente) Mubarak energica fu anche la pressione di alcuni Paesi esteri, tra i quali i più convinti furono gli Stati Uniti di Barack Obama e della Segretaria di Stato Hillary Clinton, ma anche gli abituali sostenitori dell’Egitto, quali Italia, Germania e Francia.
Il 24 giugno 2012, Mohamed Morsi, candidato per i Fratelli Musulmani, alle prime elezioni democratiche della Repubblica Araba d’Egitto dalla sua fondazione nel 1952, viene eletto Presidente con il 51% dei voti, contro l’ex Primo ministro della Presidenza Mubarak, Ahmed Shafiq
Appena salito in carica, l’obiettivo di Morsi riguardò soprattutto redigere una nuova Costituzione che facesse riferimento alla Sharia, la legge coranica. La sua presidenza, però, durerà solo poco oltre un anno. Il 3 luglio 2013 sarà deposto con un golpe militare a opera di colui che egli stesso aveva nominato come Ministro della Difesa e Capo del Consiglio Supremo delle Forze Armate, ovvero Abdel Fattah Khalil al-Sisi.
Morsi è posto agli arresti domiciliari e infine condannato a morte nel 2015 per spionaggio e tradimento alla Repubblica, condanna annullata nel 2016, con conseguente processo tutto da rifare. L’uomo politico morirà in aula durante una seduta del nuovo processo – per arresto cardiaco – a giugno 2019.
Durante la fase di transizione, dopo le dimissioni di Mubarak – nel 2011 – al-Sisi faceva già parte del Consiglio Supremo delle Forze Armate egiziano del Fedmaresciallo Tantawi, che fu incaricato di governare in vista delle elezioni, risultando tra i membri più giovani.
In pratica, a parte il breve mandato di Mohamed Morsi, la presidenza di al-Sisi può considerarsi il continuum della dittatura militare di Mubarak; classe politica – quella militare – alla guida del Paese dal 1952 e che tuttora si esprime con quasi il 50% dei ministri.
La politica del nuovo regime insediatosi dopo il golpe del 2013, infatti, risulterà ancora più brutale dei precedenti, in primis verso i simpatizzanti dei Fratelli Musulmani, i sostenitori dell’ex Presidente Morsi, qualificando e mettendo al bando il movimento politico come organizzazione terroristica, con migliaia di arrestati inflitti della pena capitale e sottoposti a torture, compreso Morsi (poi rigiudicato) e la guida politica del gruppo islamista, Muhammad Badi.
In seguito, e fino ai giorni attuali, la repressione riguarderà una platea molto più ampia di soggetti, quali attivisti per i diritti umani, giornalisti – per i quali l’Egitto risulta essere il secondo Paese al mondo con maggior numero di media operator incarcerati (fonte Reporters Senza Frontiere), avvocati e dissidenti critici nei confronti del governo, che all’occorrenza ricevono pesanti azioni giudiziarie, interrogatori sotto tortura, sparizioni (come Giulio Regeni e, purtroppo, non solo), detenzioni arbitrarie, anche se minorenni.
L’ultima protesta civile, contro al-Sisi e la corruzione di alti ranghi militari, risale a settembre 2019, in piazza Tahrir – ma anche ad Alessandria e Suez – dove sono arrestati centinaia di manifestanti, attraverso una sanguinosa repressione da parte della polizia, tantoché le testate internazionali definiranno il regime di al-Sisi come il peggiore che l’Egitto abbia mai avuto.
Il carcere di Tora, che ha un braccio dedicato ai detenuti politici, accoglie, dalle manifestazioni del 2011 a oggi, oltre 60.000 reclusi, provenienti da tutte le aree politiche di opposizione, spesso in attesa di processo – che continua a essere rimandato a oltranza, nonostante la legge lo prescriva “entro due anni”.
Tra gli ultimi arrestati, e qui detenuto – e il cui nome risuona forte anche in Italia – risulta Patrick George Zaki, studente ricercatore presso l’Università di Bologna (per un progetto Erasmus Mundus), partito a febbraio per una vacanza nel suo Paese di origine e arrestato all’arrivo all’aeroporto.
Ormai al suo centesimo giorno di detenzione, è in attesa di processo e non gli è stato concesso neanche di comunicare con la famiglia, mentre la stampa egiziana cerca di screditarlo additandolo come omosessuale – orientamento considerato criminale – mentre sottolinea che la sua prigionia è una questione interna egiziana, che non deve riguardare i l’Italia – attraverso appelli e proteste – perché a carico di un cittadino egiziano.
Tra i protagonisti della contestazione politica del 2011, che reclamava “pane, libertà e giustizia sociale”, nuovamente incarcerato a settembre 2019 dopo aver scontato una pena di 5 anni, entrato e uscito dall’istituto di pena più volte, risulta anche Alaa Abd El-Fattah, attivista per i diritti umani, molto popolare anche per la sua attività di blogger (rivoluzionario), decisiva per tutte le proteste alle quali ha partecipato, membro di una famiglia di intellettuali, insegnanti e attivisti, reduce da 39 giorni di sciopero della fame.
Nei giorni scorsi la madre di Alaa, Laila Soueif, docente di matematica all’Università de Il Cairo, ha fatto parlare di sé per alcune proteste davanti all’entrata del carcere, che hanno portato all’arresto – poi rilasciata su cauzione – di Lina Attalah, direttrice del quotidiano Mada Masr (unico media indipendente che resiste alle repressioni governative, nonostante arresti e perquisizioni alla redazione e nelle abitazioni dei giornalisti), accorsa in loco per un’intervista alla signora Souief.
Tra i nomi dei detenuti che hanno raggiunto le cronache italiane, si può anche citare Shady Habash, videomaker della clip musicale Balaha del cantautore Ramy Essam (simbolo della rivoluzione del 2011 fuggito in Svezia) che risuonava come una parodia del Presidente al-Sisi. Il giovane 22enne, in attesa di processo dal 2018, è deceduto nel carcere di Tora il 2 maggio scorso bevendo del disinfettante. In un primo momento si era parlato anche di omissione di soccorso da parte dei medici operativi nell’istituto penitenziario, fatto che ancora non pare escluso, ma è data per certa la notizia – su racconto dei compagni detenuti alla famiglia – che il giovane regista fosse caduto preda di una forte depressione, e abbia deciso di togliersi la vita.
Morfologicamente l’Egitto è al 95% coperto dal deserto ma è anche attraversato dal fiume più lungo al mondo (circa 2000 chilometri in territorio egiziano), l’affascinante Nilo, che regala lungo tutto il suo letto terre fertili da coltivare e con la sua portata ha permesso di costruire importanti dighe, e riserve d’acqua artificiali.
L’economia del Paese si basa prevalentemente sulla coltivazione di frutta e verdura, canna da zucchero e cereali; sulle entrate dei movimenti navali nel canale di Suez; su riserve naturali di energia – petrolio e gas – che rendono l’Egitto autosufficiente da questo punto di vista; sulle entrate economiche dei lavoratori all’estero; e sul settore turistico, per le sue numerose aree archeologiche e le bellissime coste lungo il Mar Rosso che, nonostante gli ultimi attacchi jihadisti, attira qui oltre 10 milioni di turisti all’anno.
In passato l’Egitto è stato uno dei maggiori produttori ed esportatori di cotone al mondo, e difatti è tuttora importante e prevalente proprio l’industria tessile, anche se, negli ultimi anni, le coltivazioni sono state diversificate per non dipendere da quel mercato e dagli sbalzi meteorologici, che possono rovinare i raccolti.
Con l’arrivo del Covid-19, per il quale l’Egitto risulta il Paese africano maggiormente colpito (a oggi i positivi sono 17.967, e i decessi 783), tutte le attività economiche ne hanno notevolmente risentito, tanto che il Fondo Monetario Internazionale, nonostante il duro piano di austerità imposto nel 2016, ha elargito un prestito da 2,772 miliardi di dollari per contenere il dilagare del virus e stabilizzare l’economia che, anche in assenza dell’emergenza sanitaria, di per sé è piuttosto malferma; mentre la Banca centrale d’Egitto ha approvato l’emissione di assicurazioni per circa 5,7 miliardi di euro – 100 miliardi di sterline egiziane – destinate agli Istituti di credito per incentivare l’erogazione di prestiti alle società private (con un tasso dell’8% a scalare – Fonte Agenzia Nova). A oggi, 1/3 della popolazione risulta sotto la soglia di povertà, e di questi una buona fetta non beneficia neanche di beni primari come l’acqua corrente.
Il debito pubblico del Paese risulta all’83% del Pil nel primo quadrimestre 2020, contro il 90% a fine 2019 e il 107% del 2017, risultati positivi (dati della Central Bank of Egypt, se veritieri) in parte realizzati con un piano di risanamento economico faraonico avviato nel 2018, attraverso l’introduzione dell’imposta sul valore aggiunto, la liberalizzazione della sterlina egiziana e la riduzione dei sussidi sul petrolio, le risorse naturali e l’acqua, oltre all’emissione di oltre 400 miliardi di bond a lungo termine, che fanno ben sperare negli intenti.
In soldoni, il debito egiziano risulta di 93 miliardi di dollari verso l’estero e di 210 miliardi di dollari quello a livello interno (2018). Alcuni esperti di economia considerano – ciò nonostante – fattibile il piano del Ministro delle Finanze che include il raddoppio del Canale di Suez e la costruzione di una nuova città, a 45 chilometri da Il Cairo, per sfoltire l’agglomerato urbano della capitale: un progetto da oltre 300 miliardi di dollari.
Forse è dovuta a questo piano edilizio la progettazione della nuova autostrada, che passa in mezzo ai palazzi di alcuni quartieri periferici della capitale egiziana, vale a dire una bretella della tangenziale che circonda la Grande Cairo. In risposta alle proteste degli abitanti – che, di fatto, ad alcuni piani dei palazzi non vedranno più la luce del sole – il presidente dell’azienda costruttrice, in un’intervista, ha detto che la distanza di 50 cm di finestre e balconi dal viadotto in costruzione sia una misura ragionevole.
Oltre ciò, un problema impellente della nazione araba è la spedita crescita demografica che in soli 70 anni ha fatto triplicare la popolazione, formata la quale al 60% di giovani sotto i 30 anni (con il 35% di disoccupazione giovanile) e salita oltre i 100milioni di abitanti. Nel piano di ristrutturazione economica del Paese è prevista una drastica riduzione delle nascite – in media 3,3 a famiglia – a causa della sovrappopolazione che al- Sisi considera una vera minaccia nazionale.
L’Egitto beneficia di numerosi supporti finanziari da parte di Paesi del Golfo, partner talvolta nel comparto petrolifero ma anche in “coalizioni belliche”, quali per esempio gli Emirati Arabi Uniti (UAE), a sostegno del generale Khalifa Haftar in Libia; o europei per progetti specifici, quali per esempio l’ampliamento della rete idrica ad Alessandria; o di concordati economici con altri Paesi (come ad esempio, con una media di 2 miliardi di dollari l’anno, gli Usa elargiscono tale somma, dal 1979, a fondo perduto).
Nonostante il non favorevole bilancio nazionale, negli ultimi tre anni l’Egitto ha rafforzato notevolmente l’import di armi, per il quale si è avvalso, nel 2019, di commesse dall’italiana Leonardo Spa (per 887 milioni di Euro). In particolare, per l’acquisto di 32 elicotteri, e in trattativa anche per due navi Freem (fregate europee multi missione) per un valore di 1,5 miliardi di Euro. Il Paese nordafricano risulta, sempre nel 2019, in cima alla lista nell’export degli armamenti italiani.
In Egitto impera l’Eni, il colosso italiano per gli idrocarburi, con numerose concessioni, talvolta anche al 100% dei prelievi e delle ricerche di nuovi pozzi petroliferi o riserve di gas naturale.
Un grande colpo di fortuna per il Paese è stata la scoperta – attivo dal 2017 – del più grande giacimento offshore di gas nel Mar Mediterraneo, e dello stesso Egitto, a 190 chilometri a nord di Port Said – all’interno della concessione Shorouk – di cui Eni detiene una quota di partecipazione del 50%, insieme a Rosneft con il 30%, e a BP e Mubadala Petroleum entrambe con il 10%. Dopo due anni e mezzo dalla scoperta il giacimento ha raggiunto oltre 2,7 miliardi di piedi cubi di gas al giorno (bcfd), in anticipo di mesi rispetto al suo piano di sviluppo.
Un capitolo a parte meriterebbe Giulio Regeni, il giovane ricercatore che nel 2016 fu brutalmente torturato in Egitto, atto per il quale non risulta ancora nessun colpevole effettivo, e al quale dedicheremo solo poche righe ma piuttosto indicative.
Il 5 febbraio scorso, durante la commemorazione per il quarto anniversario dalla scomparsa, il succitato quotidiano egiziano Mada Masr pubblicava un articolo dedicato, dove si riportava che l’Ambasciatore egiziano a Roma era stato istruito a mantenere un basso profilo sul caso e a non rilasciare dichiarazioni.
Qualche giorno prima, Roberto Fico – Presidente della Camera dei Deputati – dichiarava, in accordo con quanto scritto da La Repubblica, di avere in mano cinque nomi – gli stessi che nel 2019 i Pubblici Ministeri di Roma avevano posto ufficialmente sotto inchiesta per la morte dello studente universitario che faceva ricerca a Il Cairo sull’attività dei sindacati dei lavoratori dopo la rivoluzione del 2011. Gli indagati risultano: il maggiore generale Tarek Sabre, un alto funzionario della National Security Agency al momento della morte di Regeni, che si ritirò nel 2017; il maggiore Sherif Magdy, ex membro della NSA, responsabile della squadra che ha messo Regeni sotto sorveglianza; Il colonnello Hesham Helmy, che prestò servizio in un centro di sicurezza incaricato di sorvegliare il distretto del Cairo dove visse Regeni; Il colonnello Asser Kamal, che era a capo di un dipartimento di Polizia stradale; e il giovane ufficiale di polizia Mahmoud Negm.
Nonostante ciò, e nonostante le dichiarazioni dei politici di turno, e la visita di metà gennaio 2020 a Il Cairo del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, sui cui dettagli si mantiene il riserbo, il caso Regeni rimane irrisolto e i due Paesi – Italia ed Egitto – continuano a mantenere e a stringere nuovi accordi economici.
Concludiamo il focus sull’Egitto di al-Sisi ricordando che è tra i Paesi che ancora esercita la pena capitale e l’ultimo giustiziato, il 23 maggio scorso, risulta essere Hisham al Ashmawy, condannato per azioni terroristiche. Secondo Amnesty International, però, spesso i processi sono fortemente irregolari e i designati come colpevoli facilmente spariscono ancor prima di comparire davanti al giudice.
Infine, come da abitudine di al-Sisi, nel giorno di festa per la fine del mese sacro del Ramadan, il presidente ha concesso un’amnistia carceraria: la festa di Eid al-Fitr 2020 (il 24 maggio) ha visto la liberazione di oltre 3.000 detenuti – tra i quali, però, nessun attivista, giornalista o prigioniero politico. Ma tra le 3.157 persone a cui è stata concessa la clemenza spicca l’ex poliziotto Mohsen al-Sukkari, condannato nel 2010 a 25 anni per l’omicidio della famosa cantante libanese Suzanne Tamim, il cui mandante risulta essere il magnate egiziano Hisham Talaat Moustafa, condannato a 15 anni e scarcerato nel 2017 – omicidio per il quale fu sborsata la cifra di 2 milioni di dollari a favore dell’omicida.
In copertina: Il quartier generale del Partito Democratico Nazionale dato alle fiamme durante le proteste del 2011. Foto di ©Sherif9282.
Per approfondire:
https://madamasr.com/en/2020/02/05/feature/politics/4-years-after-giulio-regeni-killing-egypt-italy-grow-ties-in-spite-of-unresolved-case/
https://www.eni.com/it-IT/scenari-energetici/zohr-e-mappa-energetica-del-mediterraneo.html