Riflessioni e proposte per ribaltare il senso comune
di Giuseppe Gallelli
Riflessioni e proposte di Marco De Ponte, segretario generale in Italia di ActionAid, a cura di Forum Disuguaglianze Diversità.
Per cambiare la politica migratoria, è necessaria una nuova cultura politica, capace di promuovere le scelte per l’accesso all’Unione e i programmi nazionali per l’inclusione, superando il concetto di allocazione di «risorse per interventi sul piano emergenziale e contenitivo».
La peculiarità delle migrazioni europee non consiste tanto nei numeri, quanto nella pericolosità delle rotte del Mediterraneo e dei crimini contro l’umanità commessi nei confronti dei migranti dalla guardia costiera libica. Partono dai loro Paesi di origine, a causa della sperequata distribuzione delle risorse, ma ci sono vari altri fattori che li spingono in Europa: fattori economici, politici, sociali, necessità di fuggire dalle guerre e fattori complessi, come il cambiamento climatico.
Con l’arrivo in Europa «chi migra diventa oggetto del sistema di prima accoglienza, diverso in ogni Paese, ed è potenzialmente beneficiario di misure di welfare dello Stato in cui si ferma. Mantiene, nel caso dell’Italia, un trattamento penalizzante per molto tempo […] per accedere alla cittadinanza vigono regole diverse in ciascuno Stato dell’Unione, che vengono discusse con fervore dalle forze politiche e sono di competenza nazionale».
A parere dell’autore, la spinta migratoria, dai Paesi dell’Africa sub sahariana, è determinata, in particolare, da tre tipi di cause:
- declino dell’economia rurale e deterioramento ambientale;
- aumento della disoccupazione giovanile e precarie condizioni lavorative;
- politiche pubbliche inadeguate o oppressione politica contro la società civile e contro le minoranze di qualsiasi tipo.
L’autore sostiene che, per rendere sicura, regolare e ordinata la migrazione, sia necessario superare la narrazione odierna, che la ritiene «come qualcosa che mina la sicurezza e l’identità dei cittadini dei singoli Stati » e concepire politiche di allocazione di risorse e di tipo regolatorio, in modo da promuoverla « come libera scelta, rispettosa di quegli stessi diritti fondamentali su cui si basa l’Ue».
Per cambiare la politica migratoria, è necessaria una nuova cultura politica, capace di promuovere le scelte per l’accesso all’Unione e i programmi nazionali per l’inclusione, superando il concetto di allocazione di «risorse per interventi sul piano emergenziale e contenitivo».
Le incoerenze di questa politica sono molte: «è chiaro a tutti – scrive – compresi il Consiglio, la Commissione e il Parlamento europeo che hanno lavorato a rivedere il sistema di Dublino […] tuttavia la riforma che seguirà il nuovo Patto appare ampiamente regressiva sul piano della tutela dei diritti umani».
Per quanto riguarda la dimensione esterna della migrazione, infatti, l’Unione «sta lavorando da quasi un decennio a rafforzare la cooperazione con i paesi di origine e di transito. L’obiettivo è impedire partenze e arrivi attraverso accordi che, in sintesi, rappresentano un’esternalizzazione delle frontiere».
Sono stati effettuati accordi e intese bilaterali o a livello europeo, ad esempio, da Italia e UE con il Niger, con Libia, Tunisia e Turchia «concedendo aiuti economici e supporto tecnico per ridurre i flussi ».
Anche «la bozza di Patto europeo su asilo e migrazione» – sostenuto dal budget comunitario 2021- 2027 – «consente di elargire mezzi, sussidi e incentivi economici a paesi terzi, in cambio di azioni di controllo dei flussi migratori diretti in UE».
Bloccare le partenze, tuttavia, non è una soluzione sostenibile: contribuisce a creare instabilità regionale, dato che le vie di migrazione regolare, che implicano visti per ragioni umanitarie, economiche, di ricongiungimento familiare sono insufficienti e la quasi totalità delle persone che chiede asilo in Europa è costretta ad arrivare in modo irregolare.
«Cercare soluzioni umane e sostenibili – scrive – in un mondo in cui la mobilità continuerà a crescere è la sfida che l’Europa deve accettare […]. Affrontarla richiede una prospettiva pluridecennale […]. Il nuovo Patto europeo, ad esempio, sembra voler “perfezionare” un sistema già vigente in cui esternalizzazione e diritti sono resi “compatibili” l’una con gli altri, ma in base a criteri variabili, a seconda del livello di “pericolo” percepito, senza affrontare le opportunità storiche con lungimiranza».
L’autore propone all’Unione europea di agire su due fronti, quello dell’allocazione (e condivisione) di risorse e quello dell’attività normativa: «Il Parlamento eletto nel 2024 sarà determinante su entrambi i fronti, prima confermando o emendando il nuovo Patto migrazioni, poi allocando risorse nell’ambito delle politiche di vicinato, della cooperazione internazionale ed eventualmente contribuendo ad isolare gli Stati membri che dimostrassero di voler scegliere chi può entrare e chi no».
Il nuovo Patto, infatti «non modifica l’anima di Dublino»: si dovrà necessariamente chiedere asilo al primo Paese di approdo in UE, c’è un meccanismo di «solidarietà obbligatoria[…] una borsa di solidarietà» che avviene o attraverso la redistribuzione delle persone o con un contributo finanziario.
Nell’accordo Consiglio-Parlamento, inoltre, è specificato – scrive – che i fondi potranno servire anche per «il finanziamento di azione nell’UE e nei paesi terzi», quindi per la protezione delle frontiere esterne all’UE.
Apparentemente sembrerebbe che le nuove norme permettessero maggiore flessibilità ai singoli Paesi, con ampie deroghe per le procedure di asilo, in caso di crisi, ma non sono individuati i criteri per determinare lo stato di crisi.
Ecco le novità dell’attuale bozza di Patto europeo su asilo e migrazione:
- Una border procedure, procedura di confine, applicata per i cosiddetti migranti economici, ossia a chi arriva da paesi non ritenuti in guerra;
- L’Eurodac, il database comunitario per le impronte digitali e i dati biometrici anche per i ragazzi maggiori di sei anni;
- Procedure di screening (registrazione e identificazione) dei cittadini di paesi terzi, effettuati sia alle frontiere che all’interno del territorio, che, in attesa dei controlli, potranno rimanere detenuti.
Nella trattativa con il Consiglio, i deputati hanno garantito «un meccanismo di monitoraggio forte e indipendente in ciascuno Stato membro per proteggere i diritti fondamentali delle persone sottoposte allo screening».
Nella prossima legislatura, il Parlamento, a parere dell’autore, «dovrà esercitare un ruolo di watchdog sull’esecuzione del Patto».
Il meccanismo di ricollocamento, inoltre, «invece di predisporre uno standard di redistribuzione, permette ai paesi diversi da quelli di ingresso di scegliere se ricevere un certo numero di richiedenti asilo o rifiutare e contribuire a un fondo comune. Che però andrà a contribuire alle spese di tutti i paesi membri, non a quelli di arrivo […] le misure di espulsione andranno a limitare la possibilità di richiesta di asilo per chi arriva da paesi considerati sicuri, in base a una direttiva del 2013, e renderanno più veloce il loro trasferimento verso paesi terzi da cui partono più spesso per raggiungere l’Europa: cioè Tunisia, Libia e Turchia».
Anche le misure che dovrebbero essere approvate per la rotta balcanica, sono indirizzate a «un rafforzamento materiale dei confini europei, attraverso la creazione di barriere fisiche, come muri, recinzioni e filo spinato, e la possibilità di finanziare strutture detentive e controlli di frontiera in paesi terzi, come sta tentando di fare l’Italia in Albania».
Queste nuove norme vengono contestate dalla maggior parte delle organizzazioni civiche: «Cinquanta organizzazioni […] hanno firmato una lettera aperta in cui criticano duramente la bozza di riforma, sostenendo che creerà un “sistema crudele” per la gestione dei richiedenti asilo, “normalizzerà” la loro detenzione arbitraria e l’espulsione verso paesi in cui subiranno “violenze e torture”. Forti critiche sono anche arrivate dai parlamentari della sinistra europea ».
La maggior parte dei programmi di rimpatrio, sono gestiti nell’ambito dell’Ndici (Neighbourhood, Development and International Cooperation Instrument) fondo succeduto nel 2021 all’Eutf (Fondo fiduciario di emergenza dell’Unione per l’Africa ), fondo lanciato nel 2015 durante il vertice euro-africano a La Valletta.
Questo fondo, di 4 miliardi, proveniente dal Fondo europeo di sviluppo, doveva essere flessibile, ma, nella pratica, è diventato “strumento ibrido” con due focus:
- tradizionale aiuto allo sviluppo;
- gestione della sicurezza, dei flussi migratori e delle frontiere.
«È stato fortemente criticato […] a causa dell’utilizzo di Aps (aiuto pubblico allo sviluppo) dirottato su obiettivi securitari, come il freno e il controllo dei flussi migratori […]. Inoltre […] è evidente come la gestione dei reintegri e i programmi di sviluppo orientati alle cosiddette “cause profonde” siano elaborati e gestiti al di fuori del contesto sociopolitico del paese di rientro».
«Un’altra critica, scrive l’autore, riguarda il fatto che molte delle risorse per il reintegro si focalizzano sulla dimensione economica […] questo approccio si basa su due assunti […] considerare i migranti come soggetti bisognosi di competenze tende a sottovalutare quelle che già possiedono […] dall’altro, la convinzione che nuove competenze si tradurranno in posti di lavoro […]. Del tutto assente in questa visione è infatti il ruolo che svolgono le disuguaglianze strutturali e i drivers nazionali e internazionali che determinano gli alti tassi di disoccupazione e di povertà».
Anche l’Eutf vede la migrazione solo come una questione di sviluppo, trascurando gli altri fattori che la determinano e non può, quindi, a parere dell’autore, realizzare risposte efficaci: «non considera la mobilità come una normale dinamica di sviluppo della società. Eppure […] i fattori che determinano la scelta di migrare sono molteplici e agiscono su più livelli […] riguardano in generale l’accesso all’istruzione, lo sviluppo rurale, le infrastrutture […] Un’economia che funziona ed efficienti servizi sociali sono la priorità per comunità e individui, a prescindere dal fatto che siano interessati a migrare. La mobilità insomma dovrebbe essere compresa come un’opzione per una più efficace lotta alla povertà e alle disuguaglianze e non come banalmente loro conseguenza diretta e problema assoluto. A tal fine, è necessario che l’aiuto pubblico allo sviluppo torni a essere capace di promuovere risposte efficaci, anziché rimanere ostaggio delle politiche di contenimento».
L’autore propone alcune azioni possibili da parte dell’Ue, naturalmente ribaltando il senso comune e le politiche vigenti, sia nelle istituzioni europee che nei singoli stati, progettando e operando, cioè, per la prima accoglienza, il lavoro, il welfare pubblico a queste persone, «fino alla possibilità di una completa integrazione con l’acquisizione della cittadinanza».
La migrazione è soprattutto una «forma di adattamento al cambiamento e al sottosviluppo» e l’Europa dovrebbe finanziarla adeguatamente, evitando il rischio di «sovrapposizione, piuttosto che integrazione con i programmi di adattamento climatico».
«Ѐ necessario riconoscere – scrive – che essendo la mobilità climatica un fenomeno che muove le persone dai contesti rurali a quelli urbani, i programmi finanziati dalla UE relativi alla migrazione come adattamento dovrebbero essere gestiti in modo decentrato […] Vanno in ogni caso garantite risorse adeguate alla cooperazione internazionale pubblica (Aps) […] ed è necessario la cancellazione del debito […] nessuna torsione dell’Aps su una agenda securitaria e di controllo frontiere».
Ѐ necessario, soprattutto, aumentare «le vie legali di ingresso, diversificandole, rendendole flessibili e facilmente accessibili e portandole al centro della cooperazione in materia migratoria e di mobilità con paesi terzi, evitando il prosperare dei trafficanti».
Il Parlamento europeo – a parere dell’autore – dovrebbe valutare, inoltre, l’attuazione di «articolati meccanismi di monitoraggio forti e indipendenti in ciascuno Stato membro per proteggere i diritti delle persone sottoposte a screening in entrata, rafforzando i diritti dei migranti anche nelle pratiche di rimpatrio».
In conclusione: «Va concepito un approccio positivo sulla migrazione, scrive, che contempli anche le future partenze delle persone rimpatriate, in una dimensione circolare: una valutazione di impatto dei programmi di reintegro sulla sostenibilità del ritorno va fatta non solo a livello individuale, ma anche europeo e nazionale».
Infine, sottolinea, l’Unione dovrebbe aiutare gli Stati membri a «promuovere la regolarità delle persone straniere, già presenti in Europa e rimaste senza documenti, per fermare la creazione di nuova irregolarità e contrastare sfruttamento e marginalità sociale».
Concludendo, auspica «un dialogo circolare tra parlamentari europei e nazionali, anche sull’azione regolatoria e redistributiva necessaria in seno agli Stati membri, nonché sulle loro scelte in merito alla naturalizzazione […] al fine di ridurre le incoerenze tra Stati e tra ciascuno di essi e l’Unione stessa».
Nelle ultime pagine del libro la scheda biografica dell’autore e la bibliografia.
Sabato, 27 aprile 2024 – Anno IV – n°17/2024
In copertina: immagine grafica di RosZie/Pixabay