Quali riforme per un migliore funzionamento del sistema politico-istituzionale del nostro Paese?
di Giuseppe Gallelli
Mauro Volpi, autore del saggio “Quale forma di governo per l’Italia”, chiarisce quali siano le riforme necessarie per un migliore e più democratico funzionamento del nostro sistema politico-istituzionale, dato che la crisi istituzionale, a suo parere, riguarda il sistema politico, la rappresentanza e la partecipazione, più che la Costituzione.
Fin dalla fine degli anni Settanta in Italia, in ambito politico culturale, si pone il problema della riforma costituzionale, perché si individua nella Costituzione, considerata vecchia e superata, la responsabilità “dei difetti di funzionamento dell’assetto istituzionale […] per giustificare, scrive Mauro Volpi, la propria incapacità di dare vita a buone riforme conseguibili anche con leggi ordinarie e con modifiche dei regolamenti parlamentari”.
Oggi la nuova maggioranza parlamentare di centro-destra vorrebbe “dare vita a una Costituzione diversa attraverso la combinazione tra un progetto di autonomia differenziata, che darebbe grandi poteri e risorse ai Presidenti delle Regioni più ricche, dividendo il Paese, e un presidenzialismo incentrato sulla elezione popolare del capo dell’esecutivo”.
Certamente la Costituzione ha bisogno di revisioni – scrive l’autore – infatti, il contenuto è stato modificato da 20 leggi costituzionali, dal 1963 al 2022. Ma è fallito il tentativo di operare una “grande riforma” della parte seconda da parte di ben tre bicamerali. Sono fallite anche le due “grandi riforme” della seconda parte, una del centro destra nel 2005 e l’altra del centro-sinistra nel 2016.
Nella XVIII legislatura, infine, sono state approvate quattro revisioni costituzionali specifiche: sulla riduzione del numero dei parlamentari (2020), sull’estensione ai diciottenni dell’elettorato attivo per l’elezione del senato (2021), sulla tutela dell’ambiente (2022) e sul riconoscimento dell’insularità (2022).
L’autore fa presente che, per eventuali riforme, sarebbe, piuttosto, necessario ricorrere a “modifiche puntuali e per parti omogenee del testo costituzionale”, e sottolinea l’esigenza che “revisioni significative della Costituzione siano approvate da un’ampia maggioranza parlamentare [… ] tanto più importante in presenza di sistemi elettorali che possono attribuire un’ampia maggioranza di seggi non corrispondente alla metà più uno dei voti validi , sia per una ragione pratica in quanto potrebbe escludere il referendum o rendere più improbabile la bocciatura popolare”.
Propone alcune riforme necessarie per un migliore e più democratico funzionamento del nostro sistema politico-istituzionale, riforme che riguardano “il sistema politico, la rappresentanza e la partecipazione”, non la seconda parte della Costituzione.
Il sistema dei partiti è diventato “incapace di rispondere in modo adeguato ai problemi del Paese, come la carenza di valide politiche economiche e sociali, la crescente disuguaglianza tra le persone e i territori, la criminalità organizzata, l’evasione fiscale, la corruzione, il funzionamento tardivo della giustizia e quello insoddisfacente della pubblica amministrazione”.
È la crisi della politica la vera causa degli effetti negativi sulla rappresentanza, sulla partecipazione e anche sulla instabilità dei governi, fondati dal 1994, su coalizioni eterogenee, buone per vincere le elezioni ma non per governare.
“Il primo obiettivo da porsi, quindi, scrive, è quello di una riforma della politica che dia attuazione con una legge quadro al “metodo democratico” previsto dall’art.49 Costi., reintroduca una forma di finanziamento pubblico sottoposto a regole e controlli efficaci, garantisca il rispetto del dovere dei titolari di cariche pubbliche “di adempierle con disciplina ed onore” ex art. 54., c.2, Cost., ricostruisca rapporti forti con la società e con il territorio, dia vita a gruppi dirigenti di partito capaci di esprimere una leadership che superi i partiti personali e padronali, selezioni una classe politica di qualità”.
Per quanto riguarda la rappresentanza, ricorda il predominio del Governo sul Parlamento avvenuto negli ultimi trenta anni ed aumentato recentemente, non solo nella gestione della pandemia, nella gestione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e nell’aiuto militare all’ Ucraina e nel piano di riarmo, ma anche nell’appropriazione del potere legislativo attraverso il ricorso ai decreti- legge e nella gestione della fiducia, approvando leggi di delegazione legislativa, di conversione dei decreti legge e di autorizzazione alla ratifica dei trattati, oltre alla legge di bilancio, e di fatto a discutere solo al Senato e a votare senza dibattito nella Camera dei Deputati sul testo approvato al Senato, come è avvenuto per tutte le leggi finanziarie degli ultimi anni.
Per uscire dalla crisi istituzionale, dovrebbe essere ostacolato il trasformismo parlamentare e stabilito uno statuto dell’opposizione e introdotto il diritto di una minoranza qualificata di impugnare di fronte alla Corte Costituzionale, per gravi violazioni costituzionali, disposizioni di legge approvate dalla maggioranza.
Anche la crisi di partecipazione popolare è in crescente aumento, e anche il referendum abrogativo, principale strumento di democrazia diretta, è in crisi per mancato raggiungimento del quorum.
Sarebbe necessario, quindi, il rilancio di partiti rinnovati e l’adozione di un sistema elettorale proporzionale, con l’abolizione delle liste bloccate, per dare agli elettori il diritto di scegliere i propri rappresentanti e, a suo parere, “la questione della forma di governo va affrontata nel contesto delle riforme indicate”.
Ricorda i motivi del fallimento delle riforme costituzionali proposte nelle precedenti legislature, soffermandosi sulle tre Commissioni bicamerali, sul progetto di riforma costituzionale del 2005 e su quella del 2016.
Volpi critica il concetto di maggiore democraticità nell’elezione diretta del presidente del Consiglio, riportando il dettato costituzionale (art.1, c.2, Cost.) e la narrativa secondo cui il calo della partecipazione deriverebbe dalla mancata previsione, nell’elezione popolare, del vertice del potere esecutivo, riportando i risultati dell’astensionismo nelle elezioni comunali e regionali, centrati sulla derivazione popolare del capo dell’esecutivo.
Esamina altri modelli costituzionali: il modello presidenziale nordamericano e il modello semipresidenziale francese, cogliendone caratteristiche storico politiche e limiti dovuti allo squilibrio a vantaggio del potere esecutivo.
Ricerca un modello cui fare riferimento per l’elezione popolare del Presidente del Consiglio: “Il modello in questione – scrive – non è attualmente applicato a livello statale in nessun ordinamento democratico, segno evidente della giusta reticenza a irrigidire la carica e a riconoscerle un eccesso di poteri a svantaggio del Parlamento”.
Riporta l’unico esempio avvenuto in Israele tra il 1992 e il 2001, esempio che non ha prodotto la stabilità del governo e nel 2001 è stata ripristinata la derivazione parlamentare del Governo.
Analizza il modello “Sindaco d’Italia”, nella formulazione di revisione costituzionale presentata al Senato da Italia Viva nel 2023, e scrive: «se si volesse recepire la forma di governo comunale e regionale a livello nazionale, si dovrebbe paradossalmente cancellare la figura distinta del Presidente della Repubblica cumulando la funzione di organo di vertice dell’esecutivo e di Capo dello Stato».
Fa notare, anche, che, in quel modello, la stabilità governativa è realizzata al prezzo di “un sacrificio elevato delle capacità rappresentative e di controllo degli organi legislativi”.
Prende in esame, infine, il d.d.l. costituzionale del governo Meloni e si sofferma sulle principali incongruenze costituzionali:
- Non si indica quale sia la maggioranza necessaria per l’elezione del presidente del Consiglio, che potrebbe essere anche «inferiore a quella assoluta dei votanti» e il presidente potrebbe essere eletto «da una minoranza anche esigua del corpo elettorale» e non viene posto alcun limite alla rieleggibilità;
- L’elezione avviene congiuntamente a quella dei parlamentari, con un premio di maggioranza del 55% dei seggi alle liste e ai candidati al presidente collegati, «non è indicata la soglia minima di voti per l’attribuzione del premio, l’elezione congiunta viola il principio dell’indipendenza del Parlamento, dato che la sua composizione sarebbe determinata dal voto dato al Presidente del Consiglio e quindi il Parlamento nascerebbe in uno stato di subordinazione al Presidente». Verrebbe violata anche la libertà dell’elettore «che non può esprimere un voto differenziato al candidato Presidente del Consiglio e a una lista o coalizione a lui collegata», e la costituzionalizzazione del premio di maggioranza «comporta che in futuro il suo cambiamento richiederebbe una legge costituzionale»;
- «Sono nettamente ridimensionati i poteri di intermediazione politica del Presidente della Repubblica» che conferisce l’incarico al Presidente eletto ma non lo nomina e non nomina i ministri e non può revocarli. Anche lo scioglimento delle Camere è un atto dovuto quando il Governo non ottiene la fiducia e in caso di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio. Il Parlamento non può respingere la mozione di sfiducia per due volte di seguito per non essere sciolto automaticamente. È abrogata, infine, la nomina dei Senatori a vita»;
- È stabilita una norma che consente di sostituire il Premier per una sola volta nella legislatura.
Il Premierato determinerebbe – come scrive Valerio Onida – di cui Volpi riporta il parere: “un netto squilibrio nel senso dell’accentramento del potere nell’esecutivo e nel suo capo, con tutti gli inconvenienti e i rischi legati alla perdita o all’attenuazione dei fattori di controllo e di contrappeso” (cfr. V. Onida, La Costituzione, Bo, Il Mulino,2023) e anche egli ribadisce: “senza essere in grado di assicurare la formazione di Governi stabili e efficienti a causa delle divisioni interne alla maggioranza, peraltro legittimate dalla norma antiribaltone, e l’aumento della partecipazione, mortificata dalla limitazione della libertà del voto e dalla lesione con marchingegni artificiali della rappresentatività del Parlamento”.
Si sofferma, infine, “sull’indicazione popolare del Presidente del Consiglio” e dimostra che non si tratta di una riforma razionalizzatrice ma di un autentico ridimensionamento del Governo parlamentare.
“Nulla impedisce – scrive – a partiti o a eventuali coalizioni di rendere noto prima del voto il nome della personalità che intendono proporre in caso di vittoria elettorale […] Cosa ben diversa è imporre l’obbligo giuridico di indicare nella scheda elettorale il candidato alla carica di Primo ministro, che non è previsto in nessun Paese democratico[…] In sostanza la proposta introdurrebbe un elemento di rigidità che potrebbe complicare la conclusione di un accordo di governo sia prima che dopo il voto tra forze politiche che non sono omogenee”.
Rileva un ulteriore elemento di contraddittorietà in questa riforma per “il collegamento con un sistema elettorale fondato sul premio di maggioranza a favore della coalizione più votata che concentrerebbe l’attenzione degli elettori sul “capo” destinato a diventare Presidente del Consiglio e sminuirebbe il ruolo del Presidente della Repubblica e del Parlamento, per i quali, rispettivamente, la nomina del Governo e l’eventuale fiducia iniziale diventerebbero in sostanza degli atti dovuti“. In definitiva, si tratterebbe non di una razionalizzazione della forma di governo parlamentare, “ma di un suo ridimensionamento tramite l’introduzione di un istituto di tipo presidenzial-populistico”.
Si sofferma, nella conclusione del saggio, sulla forma di governo parlamentare “che resta la soluzione migliore per affrontare la crisi di stabilità, rappresentanza e partecipazione, le fratture socio-economiche e territoriali che attraversano il Paese e un sistema politico a multipartitismo polarizzato” e sulla modalità di razionalizzazione di questa democratica forma di governo.
A suo parere “l’introduzione della sfiducia costruttiva renderebbe più difficile la caduta del Governo in carica, eviterebbe crisi al buio e avrebbe una forte efficacia dissuasiva”.
La maggior parte delle crisi di governo verificatesi in Italia potrebbe essere superata attraverso una parlamentarizzazione delle crisi, prevedendo che le dimissioni del Presidente del Consiglio “devono essere motivate di fronte alle Camere e possono determinarne lo scioglimento, a meno che il Parlamento sia in grado di esprimere una maggioranza parlamentare e investire un nuovo Governo”.
Invita a una riflessione sull’elezione parlamentare del Presidente del Consiglio, successivamente nominato dal Presidente della Repubblica, perché se da un lato “vi è il timore che potrebbe limitare troppo il potere di intervento del Capo dello Stato nelle situazioni di crisi; dall’altro lato, si potrebbe riconoscere al Presidente, in caso di mancata approvazione a maggioranza assoluta del candidato da lui proposto e di elezione di un altro a maggioranza relativa, il potere di optare tra la nomina di un governo anche di minoranza e lo scioglimento del Parlamento”.
Al Presidente del Consiglio sarebbe garantita la direzione politica del Governo con il potere di “proporre la revoca dei ministri, da stabilire con decreto del Presidente della Repubblica che potrebbe così valutare le situazioni concrete ed evitare un uso scorretto del potere. Inoltre, si potrebbe valutare la costituzionalizzazione del potere di direttiva sui Ministri del Presidente del Consiglio per l’attuazione delle politiche deliberate dall’organo collegiale, oggi previsto dalla legge ordinaria n.400 del 1988”.
L’autore è nettamente contrario all’attribuzione al Presidente del Consiglio “del potere di imporre lo scioglimento del Parlamento che determinerebbe un netto squilibrio tra i poteri. Piuttosto, egli potrebbe avanzare una proposta sottoposta alla valutazione del Presidente della Repubblica in modo da configurare lo scioglimento come atto duumvirale. Le proposte razionalizzatrici avrebbero il pregio di non sconvolgere gli equilibri costituzionali, a differenza dell’elezione popolare del vertice dell’esecutivo, e sarebbero le più aderenti alle riforme relative al sistema politico e al rilancio del ruolo della rappresentanza e della partecipazione che lo stato della nostra democrazia richiede. Riforme senza le quali le modifiche della forma di governo non produrrebbero gli effetti sperati”.
Il saggio è corredato da un vasto repertorio bibliografico per approfondire
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Sabato, 29 giugno 2024 – Anno IV – n°26/2024
In copertina: Il Parlamento riunito in seduta comune in occasione del giuramento di Sergio Mattarella – Foto: Quirinale.it