Un epocale passaggio dalla padella alla brace, che ancora brucia
di Giorgio Scroffernecher
Dall’incantevole vista della città dal cielo notturno, si atterra per ragioni tecniche sulla pista di Bagdad. Il comandante è nervoso e vigila sul rifornimento di carburante, preoccupato per i rumori d’artiglieria che sembrano vicini. Ripreso rapidamente il volo, atterriamo a Teheran un’ora più tardi, nel cuore della notte. Siamo a metà degli anni ’70, ho poco più di vent’anni e non ho mai posato piede su terra mediorientale. Ricordo bene le sensazioni scendendo la scaletta dell’aereo: l’odore particolare della notte iraniana, la calura stagionale, il vociare lontano con sonorità sconosciute. Poi il passaggio in auto sotto la grande torre Azadi (letteralmente, la torre della libertà) costruita a forma di kefiah, il copricapo tradizionale arabo. Infine, l’arrivo all’Hilton hotel di Teheran… di un lusso abbagliante, con servizio h24 del miglior caviale del mondo.
Facevo parte di una troupe cinematografica con missione di documentare l’originale impiego di elicotteri CH-47 Chinook (quelli enormi con doppio rotore, impiegati in operazioni militari) per prelevare i container dai cargo al largo del Golfo Persico, allo scopo di evitare l’ingresso al porto delle navi in coda, così da velocizzare le operazioni di scarico/carico.
I giorni iraniani mi raccontarono un mondo fatto di contrasti: la ricchezza e la modernità di una parte di quel mondo orientato dallo Scià Reza Pahlevi verso occidente, e una parte più povera che pareva vivere in un tempo storico diverso così come lo era l’abbigliamento tradizionale indossato.
Con il ricordo della mia interessante esperienza, accolsi con simpatia le notizie di qualche anno dopo che riportavano di una ribellione che, almeno all’inizio, sembrava simile a quella che molti della mia generazione avevamo immaginato in questa parte del mondo, anch’essa bisognosa di maggior libertà e giustizia sociale.
A Milano, ascoltavo Radio Popolare, da lì Carlo Panella, giornalista di Lotta Continua inviato in Iran, trasferiva agli ascoltatori l’entusiasmo per la cacciata dello Scià definendo l’evento «Una giornata in cui inizia il cammino della vittoria» e, nonostante i processi a porte chiuse, le esecuzioni sommarie e l’instaurazione di una rigida sharia, il buon Panella proclamava: «Il popolo assapora la vittoria impossibile».
Un’incapacità di giudizio, una sbandata interpretativa che ha visto impegnata gran parte della sinistra, soprattutto la ‘nuova sinistra’ di cui io stesso mi sentivo parte. Dalle colonne di Re Nudo, il periodico più controculturale dell’epoca, Andrea Valcarenghi arrivò a commentare la rivoluzione iraniana con queste parole: «Il cosiddetto dibattito sulla spiritualità in passato aveva suscitato perplessità. Ma l’evolversi della situazione persiana ha fatto diventare il rapporto tra liberazione e spiritualità un argomento attuale».
Francesco Alberoni sostenne che «La liberazione cessa di essere un prodotto della dominazione culturale dell’Occidente e diventa una autoliberazione nel nome del Corano». La mente raffinata e lucida del filosofo Michel Foucault produsse questa dichiarazione: «La situazione sembra essere sospesa a una grande tenzone tra due personaggi dal blasone tradizionale: il re e il santo; il sovrano in armi e l’esule inerme; il despota con, di fronte, l’uomo che si erge con le mani nude, acclamato da un popolo».
Il santo, quel santo, l’orrendo ayatollah Khomeynī, guida suprema del nuovo Iran votato alle applicazioni più retrive del Corano, soprattutto a danno di donne, omosessuali, oppositori, artisti trattati con frustate, impiccagioni e lanci dalle terrazze, è lo stesso che oggi simbolicamente viene messo al rogo da giovani donne che gridano “Donna. Vita. Libertà!”.
Giusto ricordare che fu proprio una donna, quasi solitaria, che fin dal primo momento testimoniò una interpretazione diversa degli accadimenti. Si chiamava Oriana Fallaci e davanti a Khomeynī e le sue guardie della rivoluzione, durante un’intervista all’ayatollah, si strappò di dosso il chador cui era stata costretta e guardandolo dritto negli occhi fiammeggianti gli disse «Me lo tolgo immediatamente questo stupido cencio da medioevo». L’intervista si interruppe e da lì iniziò il pezzo di vita della Fallaci che capovolse il suo gradimento, da sinistra a destra. E questo la dice lunga di come siamo sciocchi, a destra e a sinistra.
In Italia nessuno si esercita nella nobile arte della riflessione storica con la sua elaborazione costruttiva e evolutiva. Così tutti rimaniamo impantanati nei nostri fantasmi e agiamo da questi ispirati.
Ognuno si tiene stretta la sua formula interpretativa e nulla cambia, e così, appunto, nulla cambia!
Qui forse sta il contributo che potremmo dare a noi stessi e al mondo, cercando nuove visioni e nuovi modi di elaborare la storia e progettare il futuro.
Tornando all’Iran, all’Islam e a tutti i correlati, con le lacrime agli occhi mentre sento urlare “Donna. Vita. Libertà!” dalle strade iraniane, forse anche per un vago senso di colpa antico, mi vien da pensare a quanto sarebbe importante sostenere nelle sedi mondiali più rilevanti l’applicazione ‘obbligatoria’ del principio di laicità dello Stato e la messa al bando della guerra in ogni consesso civile. Utopistico? Difficile? Impossibile? E vivere da 11 anni nel bel mezzo della guerra siriana è possibile? E sopravvivere in questo freddo inverno ucraino o nelle infuocate strade iraniane è facile? E pensare al futuro ignorando o quasi la prossima ‘scadenza’ del pianeta per ragioni climatiche non è utopistico?
Vita. Donna. Libertà!
Sabato, 17 dicembre 2022 – n° 51/2022
In copertina: foto di Cristi Yor/Pixabay