Atti di umanità e dignità per i morti in mare che nessuno reclama
Redazione di TheBlackCoffee
Il signor Marzoug vive a Zarzis – una città nel Sud della Tunisia distante oltre 500 chilometri dalla capitale Tunisi, propaggine della costa, subito sotto la più famosa Djerba – porto di partenza di migliaia di barconi zeppi di giovani tunisini durante la Rivoluzione del 2011, dissenso popolare che aveva destituito il presidente Ben Ali dopo 23 anni di governo, senza nessuna possibilità di scelta elettorale per il popolo tunisino.
Marzoug ha un carattere cordiale e tranquillo, e racconta di essere un pescatore.
La sua attività politica e sociale nei confronti dei migranti inizia in concomitanza della Rivoluzione cosiddetta dei Gelsomini, contesto storico che evidentemente gli ha dato modo di riflettere maggiormente sulla vita e sulla morte, sull’azione umanitaria che ognuno può compiere individualmente in momenti particolarmente bui, nei confronti del prossimo che ha bisogno di una mano tesa.
La nuova vita di Chamesddine Marzoug inizia da quel momento, non racconta nessun dettaglio del suo passato oltre la soglia del 2011, ovvero da quando al confine libico-tunisino di Ras Jedir vengono allestisti in breve tempo tre grandi campi profughi, per accogliere tutti i lavoratori subsahariani, ma anche mediorientali e dell’Estremo oriente, che fuggivano dalla guerra civile libica, accesasi solo un paio di mesi dopo l’inizio della Rivoluzione tunisina, scoppiata alla morte del giovane venditore ambulante Mohamed Bouazizi, a Sidi Bouzid, il 17 dicembre del 2010.
La Libia, dal 15 febbraio 2011, fu scossa da una violenta guerra civile durata circa otto mesi, che si concluse (si fa per dire) con l’uccisione del presidente libico Muʿammar Gheddafi, avvenuta il 21 ottobre, per mano delle forze militari NATO.
La Tunisia, durante i primi mesi della guerra civile libica, aveva accolto, più precisamente fatto transitare sul suo territorio, circa un milione di profughi, la cui maggioranza sono passati dai campi profughi di Ras Jedir, di cui il più grande era gestito da UNHCR, una distesa infinita di tende piantate nel terreno desertico che raccoglieva fino a 17mila persone. Gli altri campi, molto più piccoli e ordinati, erano in gestione alla Croce Rossa Internazionale e alla Mezzaluna Rossa.
Il campo profughi di UNHCR era denominato Choucha Camp e venne chiuso ufficialmente a giugno 2013, anche se vi rimasero per anni, senza acqua corrente e luce elettrica, circa 400 uomini subsahariani, che non sapevano dove andare, poiché i Paesi di origine erano in guerra e non erano interessati ad attraversare il Mediterraneo per raggiungere l’Europa.
Marzoug ha donato molto del suo tempo in aiuto ai profughi di Choucha Camp, per sei anni, fino a che l’ultimo di loro se ne è andato e il campo è scomparso, le sue tracce coperte dalle tempeste di sabbia, le baracche di fortuna costruite per ripararsi dei pochi rimasti, smantellate quando è stata rimodernata tutta la strada che congiunge Ras Jedir con Ben Guerdane, il primo centro abitato tunisino dalla frontiera libica.
Da Choucha Camp, verso l’Europa, sono partite migliaia di persone. Gli scagnozzi dei trafficanti di uomini, libici e tunisini, si riconoscevano a distanza, tutti molto giovani, puliti e profumati, contro le vesti polverose di tutti coloro che per breve o lungo tempo stanziavano lì al campo.
I naufragi adesso non sono più un tabù, purtroppo son divenuti la quotidinità, ma allora non erano menzionati, a parte quelli impossibili da eludere per l’altissimo numero di perdite umane – ricordiamo quello del 3 ottobre 2013 davanti a Lampedusa con 368 vittime, o del 18 aprile 2015 nel Canale di Sicilia con 700 morti, il più ingente mai avvenuto di quelli di cui si ha conoscenza.
Dei naufragi al largo di Zarzis, nessuno ne parlava dieci anni fa, come se nessun barcone andasse a finire in fondo al mare, come le se imbarcazioni con cui partivano ammassati i migranti fossero state moderni yacht con tutti i comfort. Il silenzio regnava sovrano, ed ancora la verità fa fatica a venire a galla, eppure di madri che avevano perso i figli in mare ce n’erano anche allora a migliaia, così come oggi.
Ha avviato così il Cimetière des Inconnus, Chamesddine Marzoug, dal 2011, quando, in mare per guadagnarsi il pane, si è imbattuto in corpi alla deriva di cui non si conosceva il nome o la provenienza, e soprattutto che nessuno reclamava. Con grande coraggio e cuore ha iniziato a seppellirli in un pezzo di terra in mezzo al nulla, nella periferia di Zarzis; il terreno è stato recintato, a protezione delle tombe, ma spesso la rete viene divelta da persone che remano contro al suo sentimento di umanità, che cercano di ostacolare la sua missione per ridare dignità a quelle persone, vittime sì del mare, ma soprattutto della geopolitica mondiale e dell’indifferenza.
Marzoug rivela che dal 2011 ha tumulato circa 150 corpi, di uomini, donne e bambini. Il piccolo pezzo di terreno destinato al cimitero ha più strati di salme, un lavoro che lui fa quasi esclusivamente da solo, perché, lamenta, c’è ben poco spirito di umanità nella società odierna.
Sabato, 28 ottobre 2023 – n°43/2023
In copertina: la sepoltura di Rose-Marie al Cimitero degli ignoti – Foto: 2023©LauraSestini (tutti i diritti riservati)