venerdì, Settembre 06, 2024

Letteratura

Spezzare l’Italia

Le Regioni come minaccia all’unità del Paese

di Giuseppe Gallelli

Nel saggio “Spezzare l’Italia”, Francesco Pallante individua le contraddizioni della proposta governativa di regionalismo, che egli definisce “autonomista, individualista e neoliberista”.

Con “l’autonomia differenziata”, infatti, Il regionalismo cooperativo e solidaristico del 1948 viene sostituito con un regionalismo competitivo ed egoistico, estraneo ai principi fondanti della nostra Costituzione.

L’autore suggerisce interessanti soluzioni per un assetto costituzionale adeguato alle reali esigenze dei cittadini e alla nostra democrazia, convinto che Stato, Regioni ed Enti locali sono chiamati non a competere ma a cooperare, in vista della realizzazione dei valori di libertà, uguaglianza, solidarietà e giustizia sociale come dichiara la nostra Costituzione.

“Le regioni non sono un male, scrive Pallante. Ma nemmeno un bene. Sono – devono essere – istituzioni rivolte […] al conseguimento dell’obiettivo ultimo della Costituzione: il pieno sviluppo della persona umana, condizione necessaria affinché tutti possano effettivamente partecipare alla vita politica, economica e sociale del Paese”.

L’espansione incontrollata dei poteri regionali, però, come sta avvenendo da anni, e, in particolare, con il modello di “autonomia differenziata” proposto dalla Destra, oggi al Governo, va fermata, perché: “Lo Stato si ritrova privo delle leve essenziali per realizzare politiche sociali, culturali, ambientali, economiche di respiro nazionale. L’amministrazione pubblica è disarticolata a causa della variabilità delle competenze, che in alcuni territori diventano regionali, in altre rimangono statali. Le imprese sono chiamate a fare i conti con una frammentazione normativa e amministrativa che complica le loro attività. La solidarietà nazionale va in frantumi […] Nel Paese europeo segnato dalla maggiore diseguaglianza interna, un’enorme quantità di ricchezza (oltre 75 miliardi all’anno) si sposta dai territori più indigenti a quelli più benestanti. Come se non bastasse, una volta assegnate le nuove competenze alle regioni, è pressoché impossibile tornare indietro senza il consenso delle regioni stesse […] Il tutto senza nemmeno il fastidio di dover cambiare la Costituzione”.

Questo, il risultato che si attuerà con l’autonomia differenziata. Siamo al compimento – scrive Volpi – dello “storico disegno secessionista della Lega”.

Lo Stato, per gli ideologi dell’autonomia regionale, sembra essere un male: “un’istituzione insaziabile, naturalmente propensa a fagocitare gli spazi propri della libertà individuale”.

Vediamo nel dettaglio lo scenario che si apre all’orizzonte: “la facoltà attribuita alle quindici regioni ordinarie – le cinque speciali sono escluse – di ottenere competenze normative e gestionali in ambiti oggi disciplinati e amministrati dallo Stato. Tale facoltà non era prevista nel testo della Costituzione del 1948: è stata introdotta, modificando l’art.116, con l’ampliamento dei poteri delle regioni promosso dall’Ulivo nel 2001 (la famosa «riforma del Titolo V» della II parte della Costituzione)”.

L’autore elenca le materie su cui lo Stato potrà perdere qualsiasi ruolo: dai diritti fondamentali, quali salute, istruzione, lavoro […] paesaggio, beni culturali, tutela dell’ambiente, rifiuti, difesa del suolo ecc. Sono ben 23 materie di importanza statuale, che daranno l’opportunità di legiferare in modo difforme nelle varie regioni.

Il punto più critico, infatti, è “il fatto che ciascuna regione potrà richiedere funzioni diverse da quelle che richiederanno le altre[…] lasciando le restanti funzioni alla competenza dello Stato […] il passaggio delle funzioni dallo Stato alle Regioni non comporterà il semplice passaggio di titolarità delle risorse umane, strumentali e finanziarie dall’uno alle altre, bensì la loro duplicazione […] collegate saranno le ricadute negative sulla spesa pubblica, a causa non soltanto della moltiplicazione degli uffici burocratici, ma soprattutto […] della perdita delle economie di scala che la frammentazione degli ambiti territoriali degli interventi inevitabilmente porterà con sé […] aumenteranno i costi e, nel complesso, peggioreranno i servizi”.

Non solo Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna avranno l’ampliamento del loro potere legislativo e autonomia fiscale. Anche altre regioni, escluso l’Abruzzo e il Molise, hanno avanzato le loro richieste. L’autonomia avrà un grave impatto su quasi tutti gli ambiti della vita dei cittadini, soprattutto delle regioni del Sud.

L’autore si sofferma sull’ ideologia della sussidiarietà che è alla base del processo autonomistico. “Là dove un gruppo sociale è in grado di provvedere da sé, la “mano pubblica” non ha titolo per intervenire: questo è il cuore della sussidiarietà”.

Distingue la «sussidiarietà orizzontale» che valorizza la capacità di azione individuale o di relazione interindividuale dei cittadini, da quella «verticale» che si verifica quando i cittadini incontrano i limiti delle proprie capacità operative e invocano l’intervento «sussidiario delle pubbliche autorità».

Coglie il filo che lega il concetto «verticale» di sussidiarietà, cioè «l’obiettivo di spostare i poteri dall’alto verso il basso», tipico delle riforme Bassanini di fine anni Novanta, con la riscrittura dei rapporti tra Stato e regioni del 2001. Lo Stato è così declassato: “l’ordine prioritario d’intervento nelle questioni politiche risulta, adesso, scrive, così riconfigurato: prima i privati, singoli o associati, e poi il pubblico (sussidiarietà «orizzontale»: nuovo articolo 118, comma 4, della Costituzione); e, una volta ammesso l’intervento pubblico, prima i Comuni e poi via via a salire, fino ad arrivare, in ultimo, allo Stato (sussidiarietà «verticale»: nuovo articolo 118, comma I, della Costituzione)”.

Non vede il nostro Autore come «la sussidiarietà verticale» possa produrre effetti positivi sui cittadini, sull’Amministrazione, sui bisogni della popolazione, sulla trasparenza dei governi locali, sulla partecipazione elettorale, né sull’incremento della democraticità, né sulla controllabilità dei governanti, né sull’incremento della pubblica amministrazione e dimostra con molti esempi questa sua convinzione.

Riporta la storia del processo autonomistico, da Gianfranco Miglio, alla «questione settentrionale» sollevata dalla Lega, fino alla riforma delle regole costituzionali relative ai rapporti tra Stato e Regioni che porteranno alla riforma del titolo V della Parte II della Costituzione.

“Per la prima volta nella storia repubblicana – scrive – una riforma costituzionale era approvata soltanto dalla maggioranza parlamentare; una maggioranza, oltretutto, frutto di una legge elettorale che ne aveva gonfiato il peso istituzionale rispetto al consenso ricevuto dagli elettori ( alle elezioni del 1996 l’Ulivo aveva ottenuto circa il 44 per cento dei voti espressi: rappresentava, dunque, una minoranza del corpo elettorale) […] l’Ulivo imponeva con la forza dei numeri la propria visione di parte alle opposizioni: oltretutto, proprio nell’ultimo momento utile della legislatura, a nuove elezioni imminenti”.

Ricorda che furono le stesse forze di maggioranza “a chiedere al popolo di ratificare, ex post, il loro operato. La funzione oppositiva del referendum costituzionale fu ribaltata in confermativa […] Il voto referendario si tenne il 7 ottobre 2001[…] Ed ebbero successo: a scrutinio ultimato, risultò che il 64,2 per cento dei votanti si era espresso a favore della riforma costituzionale regionalista […] Peccato che l’affluenza alle urne risultò pari al appena il 34,1 per cento degli aventi diritto: uno su tre”.

Il partito del leghista Bossi aveva invitato a disertare le urne: non era quella l’autonomia prospettata dalla Lega, ma la strada si stava aprendo.

L’autore descrive il percorso del regionalismo italiano, caratterizzato, inizialmente, da forme di rinnovamento e collaborazione fra Stato e Regioni, ma dall’elaborazione degli Statuti e dagli anni Novanta, dopo la riforma del titolo V, da un equilibrio instabile tra Stato e Regioni.

Si sofferma, in particolare, sugli assi portanti della «disciplina costituzionale delle regioni» e sottolinea che nella Costituzione del 1948 “l’obiettivo era di porre tutte le istituzioni territoriali in condizione di erogare ai cittadini le medesime prestazioni […] gli scopi della trasformazione regionalista dello Stato erano chiari – istituire possibili contropoteri alle derive del potere statale; favorire l’espressione del pluralismo territoriale; incrementare le occasioni di partecipazione politica dei cittadini; migliorare la condizione delle regioni meridionali per avvicinarla a quella delle regioni settentrionali”, anche se tortuosa e lunga nel tempo, fu la loro attuazione.

Ricorda la Legge del 1953 che specificava le modalità di approvazione degli Statuti regionali e il loro contenuto sull’esercizio della funzione legislativa; la legge elettorale per l’elezione dei Consigli regionali del 1968 che prevedeva l’adozione del sistema proporzionale puro; la legge per l’individuazione dei tributi propri e la definizione delle quote di partecipazione ai tributi statali e infine le elezioni dei Consigli regionali nel giugno del 1970 e l’impegno per l’elaborazione degli Statuti delle Regioni.

“La vicenda degli Statuti è la prima, scrive, in cui si manifesta una tendenza che tornerà a ripetersi […] l’utilizzo dell’autonomia più che come strumento per sviluppare le singolarità di ciascuna regione, come occasione per conquistare nuovi spazi di potere uguali per tutte le regioni […]. Fin dalla elaborazione degli Statuti, insomma, quella tra Stato e regioni sembra essere una dinamica conflittuale sulla ripartizione dei poteri tra classi politiche, piuttosto che tra collettività di cittadini”.

Descrive il trasferimento delle funzioni e il funzionamento della potestà legislativa fino agli anni Novanta. Cita la storia delle trasformazioni regionali avvenute dopo la riforma del Titolo V della Costituzione: dalla modifica della legge elettorale proporzionale del 1968, alla legge costituzionale n.1 del 1999, che modifica le disposizioni della Carta inerenti alla forma di governo regionale.

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Sottolinea la svolta realizzata, utilizzando la legge elettorale del 1995, con cui si introduce l’elezione popolare diretta del Presidente della giunta regionale, con la previsione che la caduta del presidente comportava l’obbligo di nuove elezioni: la nuova forma di governo regionale diventava, così, «presidenziale», cioè «incentrata sull’onnipotenza del vertice dell’esecutivo».

Con la legge costituzionale n.3 del 2001, infine, sono ridefiniti i poteri regionali: “Si tratta – scrive – del più ampio intervento sinora realizzato sul testo della Costituzione del 1948”; quindici gli articoli coinvolti, cinque dei quali abrogati, con «ampliamento delle competenze legislative e amministrative attribuite alle regioni» che creeranno, dopo la modifica del Titolo V, un enorme contezioso Stato-Regioni, innanzi alla Corte Costituzionale.

Anche sulla la questione fiscale, le regioni più ricche pretendono sempre di più e sostengono e rivendicano il concetto di «residuo fiscale» (cioè il risultato economico che si ottiene sottraendo dalla spesa pubblica di un dato territorio, il gettito fiscale generato da quel medesimo territorio) di cui gli autonomisti chiedono l’applicazione anche se, a parere dell’autore, è in contrasto con l’art. 53 e con l’art. 5 della Costituzione.

Ricorda che il Governo presieduto da Gentiloni, in scadenza nel 2018, sottoscrive tre accordi tra Stato e tre Regioni: “E’ l’avvio formale della trattativa sull’autonomia regionale differenziata: quella che il Governo Meloni, per mano del ministro Calderoli, vorrebbe ora condurre a compimento”.

Gli accordi del febbraio 2018 tra il Governo Gentiloni e le tre regioni prevedono l’elenco delle funzioni delegate alle regioni e che anche ulteriori richieste potranno essere portate dalle regioni.

Per quanto riguarda le risorse da assegnare, si individua una Commissione mista che lavorerà avendo come riferimento la popolazione residente e il «gettito fiscale maturato nel territorio» cioè il residuo fiscale, e si definiscono le regole attraverso cui «si dovrà dare attuazione alla laconica disciplina stabilita dalla Costituzione».

Dopo gli accordi del 2018, senza alcuna disciplina attuativa del dettato costituzionale, la proposta di Calderoli diventa un disegno di legge ordinaria anziché costituzionale.

Dopo le elezioni del 2022, il «Governo di estrema destra» mette in moto la macchina regionalista e il ministro per gli Affari regionali e le autonomie porta avanti quattro dossier: il primo sulle trattative tra Stato e Regioni; il secondo sull’iter attraverso cui giungere all’entrata in vigore delle intese Stato-Regioni; il terzo riguarda la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep) inerenti ai diritti civili e sociali che devono essere garantiti uniformemente su tutto il territorio nazionale; e un quarto dossier che interessa l’individuazione delle risorse da attribuire alle regioni «per l’esercizio delle nuove competenze».

Volpi coglie ulteriori gravi limiti dell’intesa Stato-Regioni e della successiva legge attuativa: “Il fatto è, sottolinea, che l’intesa tra lo Stato e la regione, una volta recepita la legge, durerà dieci anni con rinnovo automatico (salvo la contraria volontà dello Stato o della regione) e potrà essere modificata, o rimossa in anticipo, solamente a partire da una nuova intesa, per la quale sarà necessario il consenso della Regione (oltre che per decisione dello Stato motivata dalla grave violazione dei Lep) [livelli essenziali delle prestazioni]”.

L’ideologia regionalista, in conclusione, secondo Volpi, si è ritagliata uno spazio nel pensiero unico neoliberista. Si disconosce l’uguaglianza come valore, si esalta la competizione, mentre la Costituzione è incentrata “sull’idea che benessere individuale e benessere sociale siano tra loro inscindibili e che solo realizzando ovunque sul territorio nazionale le condizioni per “il pieno sviluppo della persona umana” (art.3, co.2, Cost.) sarà possibile consentire a tutti di essere cittadini a pieno titolo in campo politico, economico e sociale”.

Per uscire da questa difficile impasse, l’autore propone tre soluzioni che rispettano l’integrità valoriale della Costituzione:

1– Una riforma della Carta correggendo le storture della «sconsiderata revisione del 2001» ed eliminando dalla Costituzione la possibilità stessa dell’autonomia regionale differenziata;

2– Circoscrivere le competenze richiedibili dalle regioni e stabilendo opportune clausole che riguardano la possibilità di sottoporre a referendum abrogativo la legge che recepisce l’intesa tra Stato e Regioni;

3– Riconoscere che la Costituzione non configura Stato e Regioni come enti contrapposti, non promuove una competizione reciproca. Stabilire che lo Stato, le Regioni e gli Enti locali sono chiamati a cooperare in vista della realizzazione dei valori di libertà, uguaglianza, solidarietà e giustizia sociale; riconoscimento come obiettivo di tutti gli enti costituzionali il beneficio della collettività nazionale nel suo complesso.

Conclude sostenendo che è necessario, soprattutto, riconoscere come principio fondamentale della Carta, l’unità e l’indivisibilità della Repubblica, sancito nell’art.5 della Costituzione.

Nella nota finale, un interessante repertorio bibliografico per approfondire.

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Sabato, 20 luglio 2024 – Anno IV – n°29/2024

In copertina: immagine da Pixabay

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