Quanti sono i diritti umani violati in Europa in base alla Convenzione di Dublino?
di Nancy Drew
Ieri abbiamo letto il nuovo interessante pezzo del collega Nello Scavo, da dove si apprende delle continue violazioni dei diritti umani basilari – a causa della superficiale gestione dei migranti in Italia – questa volta a carico di un quindicenne ivoriano non accompagnato, deceduto dopo la quarantena obbligatoria sulla nave-quarantena Azzurra, in rada a Palermo, per non aver ricevuto le cure necessarie a causa delle violenze e delle torture subite in Libia.
Premettiamo che la gestione interna dei migranti sulle navi-quarantena è, sì, in mano della Croce Rossa, ma le decisioni importanti, come quella che andava presa per il minore, deceduto all’Ospedale di Palermo dopo essere entrato in coma sabato scorso, non spetta ai capomissione CRI operativi a bordo, bensì alle Prefetture e ai relativi responsabili.
Dalle cinque navi prese in affitto dal Governo Conte 2, della Compagnia genovese GNV, per ospitare i migranti in arrivo in Italia e introdurli – ma sarebbe più indicato il verbo ‘detenere’ – al periodo di osservazione anti-Covid, i responsabili possono solo inviare alle autorità valutazioni delle necessità a bordo, e suggerire eventuali rimedi, ma ciò non è assolutamente vincolante.
In relazione a tutte le cronache personali che ogni singolo migrante avrebbe diritto e anche necessità, dal punto di vista umano e umanitario, di far venire alla luce, si osserva che anche in altri Paesi d’Europa – perfino in quelli che spesso crediamo democraticamente più avanzati – succedono fatti inverosimili a carico dei richiedenti asilo.
Di seguito riportiamo la storia personale di un giovane cittadino libico, ormai divenuto padre di famiglia, che ha vissuto sulla propria pelle – quasi dieci anni fa – quando ancora le narrazioni giornalistiche e i percorsi personali dei migranti non erano così acerbati dai livori dei Ministri dell’Interno più recenti, un percorso che va contro a ogni ragionevole criterio di diritti umani da tutelare.
“Nel 2010 ho deciso di emigrare in Europa, perché volevo una situazione migliore e un futuro migliore, e qui nel mio Paese c’era solo molta ignoranza e frustrazione.
A novembre 2010 ho ottenuto un visto per l’Unione Europea dall’Ambasciata maltese in Libia.
Dovete sapere che la situazione della sicurezza in Libia, prima del 2011, era buona e ottenere un visto europeo per noi cittadini libici era molto semplice.
Sono arrivato a Malta il 6 novembre 2010, dove sono rimasto per tre giorni e poi sono partito per l’Italia.
Volevo restare nel vostro Paese, ma la situazione economica era brutta. Ho incontrato molti arabi – dall’Algeria, dalla Tunisia e dal Marocco – che non vivevano decorosamente e lamentavano molti problemi.
Quattro giorni dopo ho, quindi, lasciato l’Italia per recarmi, in treno, a Monaco di Baviera, in Germania, dove sono rimasto altri due giorni, per poi decidere di andare ancora più a nord, fino ad Amburgo.
Sapevo che stare in Germania era difficile a causa delle leggi locali sull’immigrazione e che non avrei potuto chiedere asilo per il regime dittatoriale nel quale vivevo, in quel periodo (Governo Merkel 2009-2013, n.d.g.).
Così mi sono trasferito dalla Germania in Danimarca.
Sono stato qualche giorno in Danimarca e poi sono andato in Svezia: il Paese scandinavo è stato la mia ultima tappa. Sono arrivato a Stoccolma a metà dicembre del 2010.
Lì ho incontrato un arabo che mi ha aiutato a trovare un posto dove dormire, ma non mi rimanevano molti soldi in tasca.
A Stoccolma ho soggiornato per circa due settimane, dormendo in una piccola moschea.
In breve tempo ho trovato lavoro nel settore della ristorazione attraverso una persona libanese. Lavoravo come addetto alle pulizie, ma il proprietario del ristorante mi trattava molto male e, poco dopo, mi sono licenziato.
Nel frattempo stavano iniziando le manifestazioni in Libia contro il regime di Gheddafi.
Prendo coraggio e decido di recarmi all’Ufficio Immigrazione svedese per richiedere asilo umanitario e, a seguito della mia richiesta, vengo spedito – con un gruppo di altri richiedenti – in un campo profughi nel nord della Svezia, nella città di Gällivare (in data odierna, 6 ottobre, alle ore 11.00 circa, a Gällivare risultano circa 8°C. Immaginando le temperature invernali, ci viene da pensare che i migranti fossero al confino, come in Siberia, n.d.g.). Presentai la domanda all’Ufficio Immigrazione a febbraio 2011.
A seguito delle manifestazioni dei cittadini libici, in Libia è iniziata la guerra civile e per questo motivo – prtroppo per noi richiedenti – il Dipartimento per l’Immigrazione svedese decise di bloccare tutte le domande di asilo dei migranti provenienti dalla Libia.
Fu in questo periodo che conobbi una coetanea svedese, divenuta in seguito la mia ragazza.
Questa giovane era però in condizioni psicologiche particolari perché viveva con una famiglia che non era quella di origine.
Su di lei ho riversato tutto il mio amore e ho cercato di infonderle fiducia in se stessa.
All’inizio del 2012 la mia richiesta di asilo è stata respinta e, il giugno seguente, il Consiglio Svedese per l’Immigrazione ha emesso a mio carico un ordine di espulsione dalla Svezia verso la Libia. Con quale motivazione? Secondo la decisione svedese, in Libia la guerra era terminata e si riteneva la situazione sicura, quindi i cittadini libici richiedenti asilo non avevano più bisogno di protezione e di soggiornare in Svezia.
Ma la verità era l’esatto opposto e questo era solo un modo per sbarazzarsi di cittadini extracomunitari non desiderati. La situazione in Libia era divenuta, al contrario, molto pericolosa – armi e uccisioni erano all’ordine del giorno ovunque.
In base a quanto deciso dalla Svezia per la mia richiesta d’asilo, ho scelto di rispettare l’allontanamento, consegnando all’Agenzia per le Migrazioni il mio passaporto; tutto ciò perché non volevo essere imprigionato o espulso forzatamente dalla polizia.
Intanto, la ragazza svedese che frequentavo, mi prometteva che mi avrebbe aiutato a tornare in Svezia.
La mia espulsione si è rivelata, in realtà, una deportazione priva di ogni logica umanitaria, con partenza dall’aeroporto di Nurnald, a Stoccolma, via Istanbul (con spostamento da uno scalo all’altro), per Bengasi: un volo di 24 ore su quattro aeroporti differenti, senza soldi in tasca per comprare almeno un po’ di cibo.
Sono arrivato a Bengasi il 13 luglio 2012, dopo quasi due anni all’estero. Una volta rientrato ho trovato il caos, le armi e la mancanza di leggi certe. Gheddafi era morto a ottobre del 2011 e ovunque regnava la più totale anarchia, con differenti clan di diversa ispirazione – politica e islamista – che aspiravano a rimpiazzarlo ai vertici del potere.
In quel periodo mi sono sentito frustrato e depresso a causa del fallimento del mio progetto migratorio e, oltretutto, sapevo di essere tornato nel mio Paese senza soldi.
Non ero riuscito nel mio viaggio in Europa ed ero molto triste. Sono rimasto circa tre mesi in quella brutta condizione psicologica ed economica, nonostante la mia amica svedese mi avesse chiamato per dirmi che mi amava ancora e avrebbe fatto di tutto per permettermi di tornare in Svezia.
Per questa ragione la mia ragazza si è recata all’Ufficio delle Immigrazioni a Stoccolma, dove ha rilasciato un’intervista, e anch’io sono andato all’ufficio del Consolato svedese a Bengasi per sottoscrivere le stesse dichiarazioni, tutte veritiere, a novembre del 2012.
Per mia sfortuna, in quel periodo sono state modificate le leggi di attesa svedesi sugli iter burocratici per le prese in carico delle domande d’asilo – passate da quattro mesi al massimo di un anno, fino a oltre due anni.
Durante questo periodo, fortunatamente, sono riuscito a tornare al mio vecchio lavoro, con l’unico obiettivo di raccogliere i soldi necessari per tornare in Svezia.
Ho inviato anche dei risparmi, per ben due volte, alla mia ragazza.
Purtroppo, alla fine del 2013 ho scoperto – attraverso dei post sui Social – che mi tradiva e mi mentiva e ho deciso di lasciarla per sempre. Dopodiché lei mi ha chiamato per dirmi che desiderava continuare la nostra relazione. In quel momento, però, ho capito che il mio sogno di tornare in Svezia era svanito: conservare la mia dignità era più importante del ritorno in quel Paese.
Nel 2014 ho conosciuto una ragazza tunisina su Facebook, che ho sposato a dicembre dello stesso anno. Purtroppo nel 2014 a Bengasi c’era la guerra civile e, dopo il matrimonio, mi sono trasferito in Tunisia, dove sono rimasto con lei per tutto il 2015.
Nell’estate del 2016 sono rientrato in Libia con mia moglie, dato che la situazione economica in Tunisia era disastrosa e non riuscivo a trovare lavoro. In Libia, al contrario, potevo ancora avere un’occupazione.
Però, a causa della guerra, la precaria situazione economica e, soprattutto, la mancanza di sicurezza, le molte esplosioni e la scarsità di pane ed elettricità, mia moglie non riusciva a vivere in Libia – dove, nel frattempo, era nata la nostra prima figlia. Alla fine del 2016 siamo, quindi, tornati in Tunisia e, da quel momento, la mia famiglia è sempre rimasta lì, con un’ulteriore figlia venuta al mondo.
Io vedo mia moglie e le bambine ogni tanto, andando avanti e indietro da Bengasi fino alla città dove vivono.
Questa è stata la mia vita dal 2010 a oggi, per cui mi sento di dire che vivo in una ‘cattiva condizione umana’ – senza mia moglie e le mie figlie, alle quali sono molto legato.
A causa di tutte le mie vicissitudini, soffro di pressione alta e mi sono ammalato in maniera cronica. Ma non sono anziano, ho solamente 35 anni“.
Noi, invece, concludiamo con una domanda: quante migliaia di casi di violazione dei diritti umani – conoscendoli – potremmo contare nella democratica e civile Unione Europea?
In copertina: il giovane libico in un’immagine a Stoccolma.