Per ricostruire il Partito Democratico
di Ettore Vittorini
Dopo Draghi, anche Enrico Letta si è mosso per portare aiuto a un’Italia precipitata nel pantano della politica. Il primo, come sappiamo, è il capo del governo; il secondo ha accettato di dirigere il Partito Democratico, dilaniato dall’immobilismo e dalle lotte interne e abbandonato di punto in bianco dal segretario Nicola Zingaretti che ‘non ne poteva più’.
Letta è rientrato dopo un esilio volontario a Parigi durato sette anni da quando, capo del governo italiano, nel febbraio del 2014 venne defenestrato da Renzi – allora segretario del PD – il quale pochi giorni prima lo aveva sostenuto con la ben nota frase ‘Enrico stai sereno’.
Dopo questo episodio restituì la tessera del partito senza accendere polemiche e si ritirò dalla politica attiva affrontando in Francia un compito importante: ha diretto fino a questi giorni La scuola di affari internazionali di Scienze politiche che, sotto la sua guida, è passata per importanza dal tredicesimo posto al secondo nel mondo.
Durante la presidenza del Consiglio Letta era apprezzato per la sua moderazione, la diplomazia e l’autocontrollo. Alcuni lo accusavano di essere troppo cauto e lento nell’agire. Forse era vero ma era un comportamento necessario in un clima politico pieno di intrighi e trabocchetti. L’aria di Parigi lo ha cambiato. «Non poteva capitarmi un’esperienza più carica di lezioni di vita», aveva dichiarato tempo fa. E oggi sembra pronto a combattere ed essere messo nelle condizioni di lavorare bene. Ha chiesto al partito un mandato pieno, senza data di scadenza e un congresso spostato in tempi più lontani. Tra i suoi obbiettivi immediati ci sono il rientro di Bersani e gli altri transfughi del LEU; un legame più stretto con i 5stelle che saranno guidati da Giuseppe Conte. Nel PD tutti sembrano d’accordo ma dovrà comunque stare attento agli agguati. Un’esperienza l’ha già avuta.
L’atmosfera del mondo politico di questi ultimi anni ricorda quella che – con le dovute differenze – incombeva nel periodo dell’Italia liberale prefascista. Sino al 28 ottobre del 1922 (giorno della marcia su Roma), il presidente del Consiglio, Luigi Facta, aveva governato per appena sette mesi e 23 giorni con una coalizione formata dai partiti Liberale, Democratico sociale, Popolare, Socialista riformista, Radicale, Agrario. All’opposizione c’erano il Partito Socialista, primo per il numero di deputati, e quello fascista che ne aveva appena una trentina.
Anche a quei tempi i governi duravano poco per la frammentarietà dei partiti, per le scissioni e per i cosiddetti voltagabbana. Prima di Facta, era stato capo del governo Ivanohe Bonomi, leader dei socialisti riformisti. Durata: sei mesi. Era stato espulso dal Partito socialista nel 1912 per aver appoggiato l’anno prima la guerra di Libia. La sua cacciata fu fortemente voluta da Mussolini, allora direttore dell’Avanti, che a sua volta fu espulso dal partito nel 1914 dopo aver sostenuto l’entrata dell’Italia nella Prima guerra mondiale. Infine nel febbraio del 1921 ci fu la storica scissione di Livorno che portò alla nascita del Partito Comunista. Come oggi tra le sinistre regnavano dunque l’incertezza e l’inaffidabilità.
Il quadro attuale, seppur con certe similitudini, è molto meno allarmante rispetto al precedente. Per fortuna non c’è un Mussolini; nemmeno un re che appoggiava i fascisti e un governo che li sosteneva attraverso prefetti, questori e tutte le forze dell’ordine. Le preoccupazioni della nostra opinione pubblica di tendenze progressiste derivano da una destra elettoralmente forte che tende a conformarsi ai regimi semi autoritari della Polonia e dell’Ungheria con alcune cadute nostalgiche sul vecchio regime fascista. Per esempio il governo polacco ha chiuso ai gay alcune zone del Paese. L’Unione Europea è subito intervenuta con un provvedimento che invita la Polonia a rispettare il trattato sulla libera circolazione dei cittadini in tutti i territori dell’UE. La maggioranza dei parlamentari di Bruxelles ha votato in favore della mozione, mentre quelli della Lega e di Fratelli d’Italia hanno espresso un voto negativo. Il fascismo ha molte facce.
Rispetto a cento anni fa la proporzione tra destra e sinistra si è capovolta perché oggi l’unico partito che rappresenta la seconda, il PD, rasenta appena il 20 per cento di sostenitori. Ed è in profonda crisi dopo le clamorose dimissioni del segretario Luca Zingaretti che è uscito rinunciando al gravoso compito di metter d’accordo le varie fazioni, accusate di ‘pensare solo alle poltrone’. Ecco la differenza con la sinistra dei tempi di Facta e quella odierna: all’epoca i socialisti che avevano alla Camera il 33 per cento di voti, rappresentavano realmente il proletariato delle città e delle campagne. Però si rifiutavano di trattare con la borghesia e oltre alle scissioni erano divisi all’interno tra riformisti e massimalisti. Questi guardavano alla Russia bolscevica e parlavano in continuazione di rivoluzione, senza mai farla ma spaventando ugualmente gli industriali, gli agrari e casa Savoia.
La sinistra di oggi invece, pur entrando diverse volte nei governi, ha abbandonato il proletariato e tutta quella massa di cittadini che si aspettavano importanti svolte in un Paese rimasto per anni immobile in tutte le sue strutture. Sono rimasti delusi e frustrati e, come è accaduto in altre democrazie, si sono rivolti alla destra che li illude con i soliti vecchi slogan e con vaghe promesse. La destra, a suo modo, parla con i cittadini con parole facili da comprendere, mentre la sinistra tace. Ha chiuso tutti i contatti con quella parte della gente a cui dovrebbe rivolgersi storicamente. La forza del Partito Comunista di un tempo era proprio quella del dialogo capillare col popolo. Oggi il PD, per ragioni storiche, non si identifica più col PCI, ma almeno avrebbe dovuto, e dovrebbe, lavorare per l’attuazione di riforme tipiche delle socialdemocrazie.
Il colpo di grazia glielo ha dato Renzi che, passato dalla carica di segretario a quella di presidente del Consiglio, aveva prima ottenuto grandi successi elettorali grazie alla elargizione di 80 euro al mese a gran parte dei lavoratori – costata 10 miliardi di Euro – in seguito non ha fatto niente di ‘sinistra’, anzi ha umiliato i sindacati convocandoli un paio di volte alle 8 del mattino per inutili colloqui di un’ora; ha tolto l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, cosa che Berlusconi non aveva osato fare pur minacciandola. Per il Paese in generale ha fatto ben poco, col risultato che alle ultime elezioni il PD è uscito con le ossa rotte. Renzi si è dimesso dalla segreteria formando Italia Viva con un consenso di circa il 3%. Oggi che i suoi ‘nemici’ Conte e Letta sono alla guida di due partiti ben più importanti del suo, preparerà altre nuove ‘manovre politiche’?
Sabato, 13 marzo 2021 – n° 7/2021
In copertina: Enrico Letta (immagine di archivio). Foto ©Laura Sestini/Archivio Ishtar Immagini (tutti i diritti riservati).