Kaïs Saïed, colui che avrebbe dovuto mettere fine al capitolo autoritario del Paese
di Camilla Forlani
Nei giorni scorsi sui media internazionali si è tornato a parlare di Tunisia per via dei numerosi arresti che hanno visto soprattutto giornalisti, ma anche avvocati e noti attori della società civile, nel mirino della politica liberticida di Kaïs Saïed.
Negli ultimi mesi, un angosciante crescendo di intimidazioni e arresti ai danni di attivisti e professionisti dell’informazione ha contribuito a creare un clima di sconcerto e paura nel Paese nordafricano, non una novità nella Tunisia contemporanea. Il numero uno di Cartagine si adopera infatti da anni perché le voci libere del Paese vengano a poco a poco silenziate, molto spesso con la vecchia scusa della lotta al terrorismo o, ancora, delle presunte minacce alla sicurezza nazionale.
Quando all’inizio del 2010 veniva rovesciata la “dittatura balneare” dalla facciata moderata e progressista molto apprezzata da un’Europa condiscendente che ignorava l’essenza autoritaria del presidente Zine El-Abidine Ben Ali, si metteva anche fine a quasi trent’anni del suo regime autoritario che, con il pretesto della lotta al terrorismo, consentiva al potentato di limitare, quando non violare apertamente, i diritti umani dei cittadini. Con una solida rete di spionaggio che si estendeva dai comitati di quartiere dispiegati in ogni angolo del Paese, fino al capillare monitoraggio delle connessioni Internet, la libertà d’espressione fino al 2011 era solo un miraggio per giornalisti e membri della società civile.
Con la Rivoluzione della dignità, termine prediletto dai suoi fautori, nel decennio successivo si è respirato tutt’altro clima nel Paese, che nonostante le asperità ha visto il moltiplicarsi di testate giornalistiche ed emittenti indipendenti, facendo largo a una pluralità inedita dopo decenni di autoritarismo. Certo, il cambiamento ha portato con sé numerose insidie, prima fra tutte proprio la difficoltà nel concertare le nuove e diverse voci, spesso discordi e ansiose di affermare la propria centralità nel nuovo assetto democratico. Con le prime elezioni democratiche tenutesi nel 2011 che portarono Ennahda, partito islamista al potere, non ci si sbarazzò dell’instabilità politica e il processo di nation building, in Tunisia, venne profondamente segnato da atti di intimidazione nei confronti di esponenti politici, attivisti, giornalisti ed attivisti, che vide il suo apice nel 2013, a seguito dell’assassinio di due tra i più importanti attivisti politici e oppositori del governo: Chokri Belaïd e Mohammed Brahmi.
In questo arco di tempo, segnato anche dagli attacchi terroristici – si ricordi quello del Bardo del 2015, che contò 24 vittime – e la grande partecipazione di tunisini alla jihad dello Stato Islamico, quando nel 2019 venne eletto il professore di diritto vicino alle classi popolari, Kaïs Saïed, esso venne salutato come l’uomo del cambiamento, colui che avrebbe rotto con il passato autoritario del Paese e messo fine al “decennio nero” segnato dall’instabilità economica e dall’estremismo di matrice islamica.
Le aspettative della gran parte della popolazione vennero però presto tradite quando, tra il 2021 e il 2022, il presidente congelò il Parlamento e sciolse il governo per un tempo indeterminato e a distanza di pochi mesi promosse un referendum costituzionale con cui si accentravano ulteriormente i poteri in mano al presidente della Repubblica.
Al processo di accentramento si accompagnò un progressivo inasprimento delle leggi di “tutela” dell’informazione e monitoraggio delle fake news.
Nel settembre 2022 veniva infatti varato il controverso decreto-legge n. 54 che punisce l’utilizzo dell’informazione per produrre “voci e notizie false” con lo scopo di arrecare danno alla sicurezza pubblica o, ancora, seminare il terrore tra la popolazione. Reati, questi, che possono essere punite con multe fino ai 50mila Dinari tunisini (circa 15mila Euro), o reclusione fino ai 10 anni “se la persona presa di mira è un pubblico ufficiale o simili”. L’ambiguità dei termini “voci e notizie” si è subito rivelata estremamente pericolosa, in quanto non vengono adeguatamente definite e offrono ampio margine di interpretazione alle forze di sicurezza che si impegnano nella persecuzione di giornalisti e attivisti. La deliberata assenza di precisazioni circa l’applicazione della legge, ha fatto sì che nell’ultimo anno e mezzo più di sessanta tra oppositori politici, attivisti e giornalisti venissero arbitrariamente arrestati e incarcerati.
Nelle ultime settimane la tendenza già preoccupante ha subito un’impennata, vedendo molti dei volti noti della società civile impegnata tunisina sotto indagine o in carcere. Tra questi, il 7 maggio, anche l’attivista Saadia Mosbah, presidentessa dell’associazione antirazzista Mnemty, che da anni si occupa della tutela dei migranti subsahariani nel Paese. A seguire, in uno scioccante arresto durante la diretta dell’emittente France24, è stata prelevata anche l’opinionista e avvocata Sonia Dahmani, anch’essa molto critica nei confronti delle politiche razziste del governo ai danni dei migranti.
La serie di arresti, perquisizioni e fermi arbitrari, hanno riportato al centro delle cronache la complessa crisi dei diritti umani in Tunisia. Questa viene infatti debitamente accompagnata da un inasprimento inaudito delle politiche di respingimento ai danni dei migranti subsahariani nel Paese nordafricano, che già dal marzo dello scosso anno subiscono continue aggressioni spesso sfociate in veri e propri pogrom, quando non in deportazioni forzate.
Refugees in Lybia, associazione per la tutela dei migranti in Nord Africa, riporta di continui rastrellamenti che si risolvono poi in “scarichi” di interi camion di migranti prelevati da ogni angolo del Paese nel profondo sud, nelle regioni desertiche ai confini con Libia e Algeria.
In tutto ciò, oggi come allora, bisogna ricordare essere la Tunisia ampiamente sostenuta dall’Unione Europea, Italia in testa, nelle sue politiche repressive e lesive della libertà di parola, oggi impegnata nel finanziamento sconsiderato di controlli delle frontiere che vengono portati avanti nel totale disprezzo del diritto umanitario internazionale con deportazioni forzate e respingimenti via mare.
La censura e le crescenti pressioni politiche minacciano ormai apertamente la libertà di stampa e di espressione nel Paese, mettendo a forte rischio i diritti tanto faticosamente conquistati con la Rivoluzione del 2011. La risposta della società civile ai continui soprusi è stata forte e chiara, con la richiesta formale da parte del Sindacato dei Giornalisti Tunisini che venisse abrogato il decreto 54, così come che venissero sospese tutte quelle cause intentate contro coloro che esprimono la propria opinione sui social media. Ad oggi, nonostante gli sforzi di giornalisti e attivisti per la salvaguardia dei diritti umani e della libertà d’espressione, è chiaro come le difficili conquiste della Rivoluzione siano oggi a rischio.
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Per approfondire:
Sabato, 25 maggio 2024 – Anno IV – n°21/2024
In copertina: Mark Rutte, Ursula Von der Leyen, Kaïs Saïed, Giorgia Meloni – Foto: Governo.it