Le strategie di Erdoğan per rimanere al potere
di Laura Sestini
Alla luce dell’attentato di Parigi del 23 dicembre in cui sono rimaste vittime una donna e due uomini, più alcuni feriti, di origine curda, provenienti dalla Turchia, è necessario un ampio quadro su come si sta muovendo la politica turca al governo del Presidente Erdoğan in vista delle prossime elezioni politiche.
E’ utile sapere che l’AKP – il partito di maggioranza, di cui il Presidente turco è leader – da qualche anno ha iniziato a perdere consensi, ancor prima che iniziasse la pandemia e la guerra in Ucraina. La prima battuta di arresto, se si lascia da parte il presunto golpe a luglio del 2016, può essere riscontrata nella vittoria di Ekrem İmamoğlu a sindaco di Istanbul nel 2019, elezioni convocate per marzo e poi ripetute a giugno, perché invalidate dalla Alta commissione elettorale su pressione di Erdoğan che reclamava brogli elettorali. Al secondo turno İmamoğlu raccolse un numero ancora più alto di voti.
Il politico è membro del partito socialdemocratico turco – CHP – e uno dei più forti oppositori di Erdoğan. A metà dicembre, con l’accusa di insulti verso funzionari pubblici nel suo discorso post-elettorale del 2019, İmamoğlu è stato condannato a due anni e sette mesi di reclusione, pena che non sconterà entro le mura carcerarie ma che potrebbe destituirlo dalla carica di sindaco della maggiore città turca e bloccare la sua partecipazione alle prossime elezioni nazionali previste per giugno 2023, se confermata.
L’economia turca non va per niente bene, l’inflazione è altissima, una ampia fetta di cittadini vive sotto la soglia di povertà, molte famiglie di ceto medio tentano la fuga verso i parenti in Europa, dove i Turchi risiedono numerosi.
In Turchia il contesto sociale è precario, la valutazione della lira turca ai minimi storici. Da una decina di anni, con atteggiamento disinvolto il Presidente turco sembra essere dappertutto alla ricerca di nuovi rapporti economici, che essi trattino di supertecnologici armamenti da vendere a chicchessia, come i droni all’Ucraina – una guerra che riempie le casse a tutti i produttori di armi; accese dispute con la Grecia per le trivellazioni nel Mediterraneo; revival diplomatici dal futuro incerto; tentativi di mediazione per trattative di pace tra Russia e Ucraina. Non ultimo un prossimo appuntamento con il Presidente siriano al-Assad – il primo dopo anni – e Vladimir Putin, per concludere un accordo – bellico – che prevede un nuovo fronte di guerra sul territorio a maggioranza curda in Siria di Nord-Est, contro le YPG/SDF – Forze democratiche siriane – con la rinnovata giustificazione dei “terroristi” del PKK- Partito dei lavoratori del Kurdistan.
Già a novembre del 2018, con il consenso di Trump e Putin – la Turchia si era aggiudicata una buffer zone oltre il suo confine Sud, e l’esercito turco aveva repentinamente aveva bombardato vaste aree della Siria del Nord- est con il deterrente del terrorismo e la presenza del braccio armato del PKK. La detta safe zone – circa 400 chilometri di lunghezza per 30 di profondità con l’operazione Sorgente di pace è divenuta “parcheggio” di migliaia di jihadisti e milizie fedeli alla Turchia, area di violenze alle popolazioni locali, luogo di assassinii, bacino di riserva di mercenari islamisti, combattenti traghettati fino alla Libia o all’Ucraina, secondo esigenze ed interessi.
L’anno precedente una simile operazione turca – denominata Ramoscello di olivo – era stata perpetrata nella regione siriana di Afrin, da dove la popolazione civile curda e araba era fuggita a causa delle violenze dei miliziani jihadisti che operano paralleli all’esercito turco.
Conclusa a fine anno anche l’ultima operazione militare Chiusura ad artiglio in territorio curdo iracheno, annunciata dal ministro della Difesa Hulusi Akar, i prossimi obiettivi bellici turchi saranno le città di Tall Rifat e Manbij, se i negoziati triangolari con Siria e Russia sigleranno l’accordo. L’obiettivo ufficiale è riportare a casa i profughi arabo-siriani, quindi ripulire l’area dagli estranei, principalmente i mercenari, e reinserire gli sfollati generati, in sequenza, dalla Primavera araba, la guerra civile siriana e l’avvento del Califfato Islamico. L’operazione odora di bruciato ancora prima di essere accordata; gli obiettivi della Turchia rimangono sempre i militari curdi SDF e le figure politiche. Nei fatti sin da maggio 2022 Erdoğan ha annunciato una prossima operazione militare di terra in Siria Nord-orientale, dove le Forze democratiche curde – YPG – sono a protezione del territorio dove si sviluppa il Confederalismo democratico, una forma di democrazia dal basso.
Gli analisti politici sostengono che la città siriana nordoccidentale di Tall Rifat potrà essere un banco di prova della potenziale cooperazione militare turco-siriana, “benedetta” dal Presidente russo.
Il 2023 è un anno importante per la Turchia, oltre alle imminenti elezioni politiche, ricorre il centenario dalla nascita della Repubblica, sorta sulle ceneri dell’Impero ottomano come Stato laico, fondato da Mustafa Kemal Atatürk.
Il nazionalismo è un potente collante politico in Turchia, e l’anniversario non passerà inosservato, tra parate militari e linguaggio bellico, a cui si abbina la direzione della politica turca, dimostratasi negli anni sempre più autocratica e islamista. Anche la Costituzione è stata trasformata, per rafforzare maggiormente la figura unica del Presidente.
Per comprendere meglio il recente attentato di Parigi nel centro culturale curdo, è importante sapere come la minoranza curda, circa 20 milioni di cittadini – così come in Siria, Iraq e Iran – in Turchia hanno subìto violenza, trucidazioni, bombardamenti, soprusi ed emarginazione fin dagli albori della Repubblica. Il partito filo-curdo HDP – Partito democratico dei popoli – terzo partito più grande attualmente in Parlamento, regolarmente vede arrestati i propri deputati, sindaci, giornalisti e attivisti, personaggi politici, con l’accusa di terrorismo. Nel 2022 la Corte costituzionale turca ha accolto un atto d’accusa che chiede la chiusura dell’HDP per i suoi presunti collegamenti con il Partito dei lavoratori del Kurdistan – PKK; mentre con l’inizio del 2023 sono stati bloccati i conti bancari del partito e i fondi del Tesoro, utili per prossima campagna elettorale. Circa un centinaio di membri HDP eletti alle amministrative del 2019 e parlamentari si trovano attualmente in stato di detenzione. L’ex deputato ed ex presidente del partito, Selahattin Demirtaş, è incarcerato da novembre 2016 – in attesa di giudizio – arrestato poco tempo dopo il presunto colpo di Stato, la cui repressione aveva portato, e tuttora in corso, all’arresto di decine di migliaia di cittadini turchi, tra funzionari pubblici, militari, insegnanti, giornalisti, artisti, intellettuali, attivisti di partiti di opposizione. Una restrizione dei diritti civili e umani senza precedenti. Citiamo uno per tutti, l’imprenditore e filantropo Osman Kavala, per cui più volte si è espressa per la scarcerazione anche la Corte Europea dei diritti umani; lo stesso è stato chiesto anche per Demirtaş.
Erdoğan fa orecchie da mercante, tira dritto e non demorde dalla sua politica autoritaria; ricatta Svezia e Finlandia che a seguito della guerra in Ucraina sono intenzionate ad entrare nel Patto atlantico, in cambio dell’estradizione dei rifugiati politici curdi che hanno ottenuto asilo politico dalle due nazioni scandinave. La Turchia è il secondo esercito Nato più grande dopo gli Stati Uniti, è forse per questo che può scorribandare per l’Europa e il Medio Oriente senza che nessuna democrazia occidentale abbia da dire qualcosa in merito? L’Europa, dal canto suo, ha perso completamente la parola.
Perché tutto questo accanimento contro i dissidenti politici curdi, tutti considerati dei terroristi? Sono forse coloro che possono far pendere l’ago della bilancia alle prossime elezioni? Anche se non tutti i Curdi votano per HDP, risultano comunque il 25% della popolazione della nazione anatolica, un numero importante.
Le guerre e il nazionalismo accendono gli animi, facendo dimenticare anche di avere lo stomaco vuoto: sembra questa la strategia di Erdoğan, per non perdere il suo potere che dura dal 1993, quando per la prima volta è stato eletto sindaco di Istanbul, per poi risalire la gerarchia politica divenendo il dodicesimo presidente della Repubblica di Turchia, nel 2014. Un escamotage per trasferire l’attenzione dell’opinione pubblica altrove dai gravosi problemi economici, sociali e politici interni in cui si trova il Paese.
In questo momento il Presidente turco si sente forte, ha delle carte da giocare, più in ambito internazionale che interno, e pare non voler perdere tempo per l’organizzazione delle elezioni, tantoché il suo portavoce, Ibrahim Kalin, ha annunciato che potrebbero essere anticipate ad aprile.
Sabato, 7 gennaio 2023 – n° 1/2023
In copertina: Mustafa Kemal Atatürk – Foto: Pasam Renkli https://www.ataturk.at/en/anasayfa/