La parte oscura della Repubblica presidenziale turca
di Laura Sestini
La nascita della nazione turca è relativamente recente – del 1923 – costola, o meglio cuore, dell’Impero Ottomano durato oltre sei secoli, sgretolatosi durante la Grande Guerra e ridiviso i più nazioni con il Trattato di Sèvres. La Turchia, da un sultanato di base islamica si trasforma in breve tempo in una Repubblica parlamentare monopartitica fondata e governata, nei primi 15 anni, da Mustafa Kemal Atatürk – un ex generale considerato eroe nazionale e padre della Turchia moderna.
L’attuale popolazione è stimata in circa 82 milioni, di cui il 18% di etnia curda, ritenuta una minoranza – insieme a greci, armeni e ebrei, ma anche a molte altre piccole comunità.
Nel 1952, ai tempi dei timori per un attacco russo all’Occidente, la Turchia aderisce al Patto Atlantico, dove attualmente risulta il secondo esercito per grandezza, e che nei giorni scorsi ha ricevuto lustro per aver attivato un ponte aereo – attraverso accordi e operazioni Nato – atto alla fornitura di materiale sanitario di contrasto al Covid-19 destinato all’Italia.
In questo ambito, di difesa collettiva Nato, è importante ricordare che la Turchia ospita sul suo territorio numerose basi militari Usa, dove sono anche immagazzinate bombe nucleari di tipo B-61.
Oltre all’adesione alla Nato, dagli Anni ’80 la Turchia accarezza l’idea concreta di entrare come Stato membro nell’Unione Europea, un processo iniziato negli Anni ’60 ma ancora non concretizzatosi per i numerosi nodi da sciogliere in fatto di diritti umani e civili interni alla Repubblica turca – sebbene qualche passo sia stato realizzato, per esempio con l’abolizione della pena di morte e ottenendo lo status di paese candidato nel 1999.
Con l’avvio delle Primavere arabe, del 2011, e la conseguente guerra siriana che non ha ancora fine, nel 2015 la Turchia trova un importante sviluppo nelle relazioni con l’UE grazie alla gestione dei flussi migratori che arrivano copiosi dal Medio Oriente: migliaia di persone che tentano una via di fuga per scampare alle atrocità compiute sui civili dallo Stato Islamico, per il quale compito di protezione e freno all’arrivo dei profughi verso l’Europa, la Turchia percepisce dalle casse dell’Unione circa 6 miliardi di Euro e altri incentivi milionari che riguardano tematiche differenti interne al Paese come, per esempio, un aiuto alla tutela dell’ambiente.
Il contratto prevede il contenimento dei migranti in territorio turco con apertura ex-novo di campi a questi destinati, dove sono stipate al presente decine di migliaia di famiglie in condizioni umane e igieniche precarie, finanche usate come merce di scambio nell’ambito del conflitto armato in Siria – al quale la Turchia partecipa, contro la sovranità di Bashar al-Assad e per la sua destituzione, dal 2012.
L’ iniziale azione di supporto politico e materiale di Recep Tayyip Erdoğan agli oppositori del Presidente siriano si è ampliata nel tempo con un operato diretto, mettendo in campo il proprio esercito e l’aviazione, e intessendo parallelamente rapporti a fianco di milizie mercenarie autonome o talvolta confluenti con affiliati di Al-Queda o Isis. Gli stessi mercenari che – adesso che la guerra ha una minore intensità – sono traghettati in Libia a supporto del precario governo libico di accordo nazionale (Gna) guidato da Fayez al-Sarraj.
In una visita ufficiale in Europa del Presidente turco nel 2018, con i leader UE si ribadiscono le linee guida della cooperazione sulla rotta migratoria e – tra le altre – l’interesse condiviso nella lotta al terrorismo. Qui è lecito e obbligatorio chiedersi come l’Europa possa, in cambio del contenimento dei migranti entro i confini turchi, fingere di non essere a conoscenza dei rapporti con i canali jihadisti della Turchia. I confini tra Siria e Turchia sono chiusi solo per i civili in fuga qui ammassati, al contrario dei mercenari provenienti da tutta Europa, ma fin dall’Estremo Oriente, che circolano liberamente con documenti freschi di stampa, rilasciati in uffici appositi di Istanbul da colletti bianchi consenzienti. Mercenari al soldo della Turchia, utilizzati per operazioni di invasione brutale e sostituzione etnica, al posto dell’esercito regolare. Scelta questa dovuta al fatto che, in caso di morte di molti militari, il Governo potrebbe registrare un pericoloso dissenso politico in patria.
Sempre nello stesso incontro europeo, precedentemente citato, si discute anche il coinvolgimento della Turchia in Siria. Come abbiamo già accennato, i militari turchi sono oltre confine dal 2012 e in questi otto anni, cinque sono le operazioni militari ufficialmente (ma le non ufficiali sono ovunque) lanciate da Erdoğan, tra Rojava – l’area a maggioranza curda a nord-est – e le zone arabe siriane, con il tacito assenso della Russia, che appoggia Bashar al-Assad, e degli Usa, che appoggiavano con i propri aerei i curdi nella lotta contro il Califfato Islamico. Va anche detto che gli oppositori politici di al-Assad, poi organizzatisi in Consiglio Nazionale Siriano – e la conseguente istituzione dell’Esercito siriano libero – al quale Erdogan ha sempre dato appoggio, si è costituito a Istanbul nel 2011.
Il 9 ottobre 2019 è la data di inizio di una violenta operazione bellica turca in Siria del Nord, alla quale il ritiro dei contingenti statunitensi ha lasciato via libera, e attraverso la quale la Turchia ha subito dopo ottenuto – per un accordo congiunto tra Usa e Russia – il controllo di una safe zone, profonda 30 km oltre il confine siriano, in area curda – uno dei reali obiettivi turchi – che di safe (sicuro) ha solo il nome.
Negli stessi convulsi giorni di bombardamenti e violenze a tutto campo sui civili, gli Usa annunciano l’uccisione di Abu Bakr al-Baghdadi, il capo carismatico e fondatore del Califfato Islamico. La ricostruzione dei fatti ancora non ci convince, tanto quanto se chi è stato ucciso sia il vero al-Baghdadi e la sua famiglia. Intanto l’autorevole rivista geopolitica Limes, titolava così il suo pezzo: “Trump ha dato a Erdoğan un pezzo di Siria in cambio di al-Baghdadi”.
“Scudo di primavera” è invece la recentissima missione militare lanciata da Erdoğan il 28 febbraio scorso, nell’area di Idlib, dove resiste l’ultimo gruppo di mercenari, con scontri diretti tra Turchia e l’esercito regolare siriano appoggiato dalla Russia, subito a sud del confine turco. La Turchia non può permettersi, al di là delle mire espansionistiche, di lasciare soli – almeno per salvare la faccia – tutti i gruppi paramilitari che ha assoldato nel tempo e di cui ha forzatamente trasferito le famiglie nei luoghi di conquista, espropriando i cittadini siriani delle loro case, iter avvenuto anche a Idlib.
Sulla questione curda, piuttosto complessa e lunga numerosi decenni, torneremo a scrivere in un prossimo approfondimento, dalla sua propria genesi interna alla Turchia, dove ricordiamo i Curdi essere il 18% della popolazione – quasi 20milioni – con centro geografico a Diyarbakir (Amed in curdo), nell’area sud-est dell’Anatolia, fino alle altre aree – irachena, siriana e iraniana – del Kurdistan.
Ma concludiamo con il discorso sui migranti e i rapporti tra Turchia e UE. Sono accaduti recentemente – questa volta a causa della diffusione del Covid-19 e delle condizioni sanitarie estremamente precarie dei campi – episodi di violenza perpetrata dalla polizia turca nei confronti dei profughi mediorientali, che per ricatto all’Unione Europea sono stati spinti alla frontiera con la Grecia con lo scopo di intimorire la vecchia Europa alla minaccia di aprire i confini; contemporaneamente la Grecia, a sua volta – lungo braccio di Bruxelles – cercava di respingerli verso la Turchia. Non esseri umani, quindi, ma merce di scambio e perpetui destinatari di violenza.
Va altresì aggiunto che nel 2017 Erdoğan si è rivolto alla Russia di Putin per l’acquisto di sistemi missilistici S-400, di cui una parte già recapitata in barba agli accordi impliciti del Patto Atlantico, con conseguente crisi nei rapporti tra Turchia e Nato, in particolare con le autorità statunitensi.
La politica interna del Presidente turco non è molto differente da quella estera e potrebbe essere indicata – come scrive la sociologa statunitense Riane Eisler nel suo saggio ‘Il calice e la spada’ – un sistema sociale dominatore.
I cento anni di storia dalla nascita della Repubblica turca, partendo dal genocidio degli Armeni del 1915, al quale Mustafa Kemal Atatürk – poi primo Presidente turco – prese parte come membro del movimento politico e militare dei Giovani Turchi, conducendone la guerra, sono testimoni di un avvicendamento di politiche e politici aggressivi e violenti, colpi di stato militari, tentativi di pulizia etnica sulle minoranze, torture alle centinaia di migliaia di detenuti politici e non, di cui l’immaginazione non riesce a cogliere la piena realtà, tanta è la brutalità perpetrata, ma la memoria si può ricollegare a un film cult degli anni ‘80, Fuga di mezzanotte di Alan Parker, per comprenderne in minima parte la dimensione.
Il tentato colpo di stato del 16 luglio 2016, attribuito da Erdoğan alla mente di Fethullah Gülen, un potente oppositore politico del Presidente turco residente negli Stati Uniti, ha portato all’arresto arbitrario di decine di migliaia di politici, intellettuali, giornalisti, avvocati, studenti, insegnanti e civili in genere, oltre a numerosi artisti, con l’accusa di affiliazione terroristica.
Le carceri turche sono sovraffollate, le condizioni in molti casi disumane, i diritti umani dimenticati. Ed è proprio di qualche giorno fa la morte di Helin Bölek, cantante del Grup Yorum, fitto gruppo di musicisti, che ha perso la vita dopo 288 giorni di digiuno fino alla morte – come forma estrema di ribellione e libertà – per l’arresto di alcuni componenti della band accusati di sostegno al Partito/Fronte di Liberazione Popolare Rivoluzionario DHKP-C e di un repertorio musicale che si rifà alla resistenza dei popoli oppressi, alle quali motivazioni si aggiungono i processi arbitrari a carico di questi e il divieto al resto dei musicisti di esibirsi in pubblico.
Al 301° giorno di digiuno, ancora miracolosamente in vita, risulta anche Ibrahim Gökçek, altro membro di Grup Yorum presente al corteo funebre – dove ha espresso le sue parole di cordoglio – svoltosi in un quartiere popolare di Istanbul. Alla cerimonia è intervenuta la polizia traendo in arresto 21 dei familiari presenti.
Alle elezioni amministrative del 31 marzo 2019, il partito APK di Erdoğan, per poche migliaia di voti perde la guida di Istanbul – la maggiore città turca e snodo delle principali attività commerciali – insieme alla capitale Ankara. Durante lo spoglio dei voti, quando già si poteva percepire un sorpasso su Istanbul del partito di opposizione CHP, un black-out televisivo di undici ore lascia milioni di cittadini con il fiato sospeso. L’indomani lo stacco di Ekrem Imamoglu (attuale sindaco di Istanbul del partito repubblicano) sarà solo dello 0,5%, ma il candidato del partito filogovernativo, Yildirim, è sconfitto. Il voto in seguito è stato annullato con il ricorso presentato dai nazionalisti dell’Mhp e dall’Akp, accettato dalla Commissione elettorale suprema e rimandato al 29 giugno – confermando nuovamente la vittoria di Imagoglu.
Non possiamo infine esimerci dal ricordare la violenza sulle donne di questo Paese di tradizione clanico-patriarcale, e la deriva islamista verso cui si affaccia la sua più recente politica, che consiglia alle donne di stare a casa e fare figli.
Nei 20 giorni di lockdown da coronavirus, è stata uccisa in media una donna al giorno, per un totale di 29 donne nel mese di marzo, di cui la maggioranza tra le mura domestiche.
Sinteticamente potremmo riassumere il sistema turco una lunga scia di sangue e repressione, che non si ferma neanche davanti all’avanzare del Covid-19, per il quale risulta il secondo Paese mediorientale, con oltre 20.000 contagiati.
Il tutto condito da una profonda crisi economica che fa crescere rapidamente i numeri dei cittadini sotto la soglia di povertà.
In copertina: Al caffè. Foto di 2019©Laura Sestini (riproduzione vietata)
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